Manfredi & company, pacta sunt servanda

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In foto Gaetano Manfredi

Il neosindaco di Napoli Gaetano Manfredi ribadisce da eletto un concetto sul quale ha molto battuto in campagna elettorale: senza denari non si cantano messe. E senza soldi Napoli non si governa. Tanto che si è lasciato convincere a candidarsi soltanto dopo aver ricevuto solenne promessa che i cordoni della borsa statale sarebbero stati allentati del necessario per provvedere a ripianare l’enorme debito accumulato negli anni.
Naturale che adesso reclami il rispetto degli impegni come ha fatto con particolare forza negli ultimi giorni suscitando anche qualche polemica. E appare coerente la minaccia non velata di valutare la possibilità di rassegnare le dimissioni se le risorse fatte balenare dovessero svanire lasciando la città simbolo del Mezzogiorno in preda agli spasmi della povertà amministrativa. Il Comune è tecnicamente fallito e a quel punto occorrerà prenderne atto.
Chi ora sostiene a bassa o mezza voce che l’ingegnere professore prestato alla politica avrebbe dovuto aspettarsi che le parole usate per spingerlo ad accettare la sfida delle urne fossero vuote pecca di cinismo e nega alla base la possibile esistenza di ogni forma di fiducia. Se tre leader nazionali come Giuseppe Conte (M5Stelle), Enrico Letta (Pd) e Roberto Speranza (Liberi e Uguali) giurano di aver stretto un patto per risanare la città occorre credergli.
E sarebbe interesse loro mantenere il punto perché in fin dei conti ne va della loro credibilità. E per quanto svalutata e degradata sia oggi l’immagine di un politico un minimo di amor proprio deve pur ritracciarsi nell’intreccio di sentimenti che lo anima. Soprattutto se si vuole essere coerenti con il nuovo corso inaugurato dal governo di Maio Draghi. Pacta sunt servanda, ammonivano i nostri antenati. I patti vanno mantenuti.
Certo, il rispetto di questo principio implica che Manfredi dovrà lasciare l’incarico appena ottenuto se davvero dovesse trovarsi al cospetto di una grande presa in giro a danno della metropoli e dei suoi cittadini. L’inquilino di Palazzo San Giacomo dovrebbe con coerenza sloggiare per davvero una volta esplicitata la propria intenzione di fronte al tradimento dei suoi sostenitori. Se vorrà tener fede alla sua posizione non potrà che agire di conseguenza.
Il che sarebbe un bel pasticcio. Anche perché l’ex ministro dell’Università, già rettore della Federico II, pone un problema la cui soluzione è di vitale importanza per l’intero Paese. Oltre che di soldi il suo Municipio, come accade in gran parte del Mezzogiorno, manca delle capacità professionali e tecniche per trasformare in fatti le opportunità del Piano nazionale di ripresa e resilienza sul quale si appuntano le più grandi aspettative.
Se non c’è personale in grado di scrivere progetti, trasformarli in opere, rendicontarli, i miliardi stanziati dall’Europa per l’Italia non saranno mai spesi o investiti. E questo a prescindere dalla buona volontà o qualità dei sindaci e dei governatori perché l’impossibilità di agire sarebbe oggettiva. Indiscutibile. Fingere che non sia così o che le cose si possano aggiustare da sole nel poco tempo a disposizione è un’illusione che potremmo risparmiarci.
Ancora di più se consideriamo che per rimediare allo scollamento tra amministrati e amministratori – giunto nei dieci anni della sindacatura di Luigi De Magistris a livelli drammatici – occorre dare ogni giorno dimostrazione che non si apre più la bocca per dare fiato al nulla velleitario ma per far succedere le cose. Se l’esempio deve arrivare dall’alto non c’è altro modo per salvare Napoli dal precipizio che farsi carico, tutti, delle proprie responsabilità.