Camera di commercio italiana in Cina, la percezione delle nostre Pmi nel Paese comunista dopo il Covid

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La Ccic (Camera di commercio italiana in Cina) pubblica un rapporto (accessibile gratuitamente dai soli soci) sullo stato di salute delle imprese italiane in Cina, frutto di un recente sondaggio condotto all’interno della  base associativa. “Si tratta – si legge in una nota – di un rapporto particolarmente importante, in quanto fotografa lo stato di salute delle nostre imprese e il loro clima di fiducia dopo un 2022 che è stato per la maggioranza di esse un anno di riduzione del fatturato e della creazione di valore”.

“Analizzando lo stato di salute delle nostre imprese nel 2022 – si legge nel documento – emerge una tendenziale e prevedibile recessione,  contraddistinta da un anno di fatturato in  calo  e  un generale aumento dei costi. Il quadro del bilancio finanziario nel  2022 non è stato molto positivo. Solo il 39% ha raggiunto gli obiettivi messi a budget per l’anno, mentre ben il 61% non ha raggiunto i KPI in termini di fatturato –  tra  questi quasi il 18% ha chiuso l’anno in perdita. Ad aver sofferto maggiormente sono state le aziende  dell’agroalimentare,  del  design  e in generale tutte quelle realtà legate al retail e ai beni di consumo. Mettendo a confronto il 2022 con il 2021, quasi metà delle nostre aziende ha subito una diminuzione delle entrate, e oltre un terzo ha  avuto  una  contrazione superiore al 30%”.

“Tra le principali sfide a  cui  le  imprese hanno dovuto far fronte – spiega il rapporto – c’è stata la frammentazione della catena di approvvigionamento. Se le problematiche legate alla logistica si sono fortemente attenuate rispetto al 2021, con  un generale miglioramento, soprattutto nel trasporto via mare, i costi legati  alla “supply chain” sono però generalmente aumentati rispetto all’epoca pre- pandemica. I dati dello scorso luglio erano piuttosto allarmanti: il 60% delle aziende italiane aveva registrato un aumento dei costi pari al 60%, e per il 40% il rincaro superava il 50%. A     marzo     2023,     all’indomani     quindi dell’emergenza   pandemica,   il   69%   delle aziende dichiara  comunque  un  aumento dei costi della catena  di approvvigionamento  pari  ad  almeno  il 30%. Il rincaro dei  costi  della  “supply chain” continua dunque, ancora oggi, a incidere negativamente sul bilancio delle nostre aziende”.

Le aziende italiane per la maggioranza considerano complessa  e poco  favorevole una completa ristrutturazione del proprio sistema produttivo in Cina.
Guardando al futuro, cauto ottimismo è la parola chiave. Il 70% prevede un aumento delle entrate nel 2023, rispetto al  2022 – per  oltre  il  42%  l’incremento  previsto  sarà almeno del 20%.
Altrettanto    prudente    è    l’atteggiamento verso gli investimenti futuri nel breve termine: se il 35% pensa sia prematuro prevedere  cambi  di strategia  e il 28% porta avanti investimenti iniziati, il 25% ha posticipato, diminuito o cancellato i propri investimenti in Cina.

Detto questo, la  Cina  continua  a  essere nel breve termine “the place to be” per più della metà delle nostre aziende localizzate (57%). Il  24%  è  ancora incerto, mentre il 19% ha deciso di diversificare: tra questi circa il 13% punta ad altri mercati, ASEAN e non, per ulteriori investimenti. Solo il 3% ha deciso  di  uscire  dal  mercato  cinese. Tra i nuovi Paesi di investimento il 24% investe in Vietnam, il 16% in India e Thailandia – nuovi poli attrattivi per  un costo minore della forza lavoro, un miglioramento delle infrastrutture, unito a un sistema di dazi favorevole, e  una  più lieve tensione geopolitica.

 La percezione della Cina, a seguito della fine delle politiche anti-COVID avvenuta a metà dicembre del 2022, con la conseguente riapertura, è comunque più positiva di quanto si potesse pensare fino a qualche mese fa. Il 49% delle aziende ha riconquistato a poco a poco fiducia nelle potenzialità del mercato cinese, ma permane un 29% che denuncia un forte deterioramento, e perdita di attrazione della Cina come polo di investimento.

Per oltre il 60%, il mercato cinese continua, nonostante tutto, a essere visto come terreno fertile per la crescita del business nel proprio settore di appartenenza e il più grande mercato al mondo dotato di un ambiente di business dinamico. Da non sottovalutare però la posizione del 17% delle nostre imprese, per le quali la Cina non rappresenta più il primo mercato per importanza. Nessun esodo di massa dalla Cina, ma una crescente tendenza ad avere più opzioni