Comincia col botto l’anno bisestile

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L’Anno Nuovo è cominciato col botto. Nel senso vero del termine, almeno con riferimento ai mercati finanziari e alle crisi internazionali dell’ultim’ora. Insomma, il crollo delle borse cinesi, il perdurare della guerra siriana, la crisi tra Arabia Saudita e Iran e i giochi pericolosi del dittatore nord-coreana Kim Yong che minaccia di colpire il mondo con la bomba H, hanno oggettivamente messo in secondo piano gli avvenimenti domestici: dal primo discorso del presidente Sergio Mattarella, ai saldi, all’industria che cresce, alla disoccupazione che cala, allo sprint della Ferrari in borsa. Mai come questa volta il pericolo di una nuova guerra globale si è concretamente insinuato nelle nostre menti. Ma restiamo ottimisti. Ovviamente, c’entra niente tutto questo col fatto che il 2016 è bisestile e, dunque, secondo una vulgata popolare, in qualche modo foriero di sventure. Anno bisesto e funesto, si dice. Ma è una mattana. Del resto, che cosa dovrebbero dire dello scorso anno quei poveri risparmiatori italiani buggerati da banchieri senza scrupoli e politici poco seri? E tutti noi, poi, ciascuno per un proprio recondito e ovviamente valido motivo? Del resto, la pensano diametralmente all’opposto le popolazioni anglosassoni, per le quali invece l’anno bisestile è sempre fortunato e propizio. Dunque, chi ha ragione? Il fatto è che – anche tra finanzieri e uomini d’affari, soprattutto quelli improvvisati – non sono pochi i superstiziosi. Il quali, infatti, soprattutto quando le cose gli vanno male, dimenticano che probabilmente oggi stanno raccogliendo quanto hanno seminato nei mesi scorsi. Perciò, restiamo ai fatti. Nel caso delle borse cinesi – ed entriamo in argomento – la verità è che i mercati stanno sostanzialmente presentando il conto dell’euforia registrata nella primavera del 2015, quando l’indice di Shanghai salì vertiginosamente fino a toccare rialzi del 150 per cento. Certo, soprattutto per i piccoli risparmiatori cinesi, si trattò di un’euforia assai contagiosa. Da premettere, infatti, che il mercato azionario cinese è secondo solo a quello degli Stati Uniti, ma ha caratteristiche proprie. Le Borse di Shanghai e Shenzhen contano 90 milioni di piccoli azionisti, ben più degli iscritti al Partito comunista cinese, che giocano con la finanza come fossero al casinò. Secondo alcune stime, costituiscono circa l’80 per cento del totale degli investitori. Così, quando a primavera del 2015, l’indice di Shanghai è salito vertiginosamente, ai piccoli risparmiatori cinesi non è parso vero potersi buttare nella mischia e pensare di poter fare tanti soldi. Basti pensare che solo a maggio scorso in Cina sono stati aperti 12 milioni di nuovi conti-titoli. Una marea. Dunque, che la bolla prima o poi scoppiasse era da mettere in conto. E forse non è ancora del tutto finito. Sta di fatto che il 7 gennaio, dopo appena 14 minuti, Shanghai ha perso il 5 per cento. Quindi le autorità hanno disposto la sospensione di 15 minuti, misura introdotta qualche giorno prima (il 4 gennaio) proprio per controllare la volatilità dei mercati. Pensare, del resto, di poter gestire per decreto l’onda emotiva della massa è una prerogativa non sempre e non solo dei governi dispotici, né del solo Partito comunista cinese. E, infatti, la misura non ha funzionato. Anzi ha peggiorato la situazione. Sicché appena le contrattazioni sono riprese c’è stato un nuovo calo del 7 per cento. E stavolta la chiusura è stata disposta per l’intera giornata, con il risultato assai sgradevole che i piccoli risparmiatori, dopo l’illusione della facile ricchezza, non hanno avuto più nemmeno la possibilità di vendere per limitare le perdite. Da noi si direbbe: cornuti e mazziati. Non a caso, infatti, all’improvvida decisione – che invece di calmierare ha contribuito a diffondere il panico – è seguito l’annuncio dell’abolizione della nuova misura, a partire dalla contrattazione di ieri, venerdì. Risultato: in soli quattro giorni l’indice di Shanghai ha perso il 12 per cento, tornando ai livelli di inizio 2015. In poche parole, è accaduto che quando i piccoli risparmiatori rincorrevano finalmente la ricchezza, i grandi investitori hanno cominciato a vendere. Un’avvisaglia in questo senso c’era stata già il 12 giugno: le borse cinesi persero il 45 per cento del proprio valore. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. In fondo, siamo tutti cinesi. A cominciare dai nostri governanti.