La casa di Pasolini

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in foto Pier Paolo Pasolini

di Erika Basile

Povero come un gatto del Colosseo, / vivevo in una borgata tutta calce / e polverone, lontano dalla città / e dalla campagna, stretto ogni giorno / in un autobus rantolante: / e ogni andata, ogni ritorno, era un calvario di sudore e di ansie. / Lunghe camminate in una calda caligine, / lunghi crepuscoli davanti alle carte […] / Ero al centro del mondo, in quel mondo / di borgate tristi, beduine, / di gialle praterie sfregate / da un vento sempre senza pace… Pier Paolo Pasolini ricorda i suoi primi anni nella periferia romana, dal 1951 al 1953, quando viveva in via del Tagliere 3, in un modesto appartamento nel cuore di Rebibbia. Il 17 dicembre quella casa, proprietà privata chiusa da tempo, sarà venduta all’asta. Come spesso accade, in un Paese che dimentica le sue periferie, non è mai stato attuato il progetto di creare un polo culturale, un museo e una biblioteca, una Casa internazionale della Poesia, un luogo dove far rivivere la sua memoria attraverso eventi e iniziative, che potessero valorizzare tutta la zona, da Rebibbia a San Basilio. Giorgio Caproni ricorda così quel periodo di Pasolini: «La sua miseria era spaventosa ed io avevo intuito la grandissima intelligenza di quest’uomo timidissimo. […] Mi telefonava, chiedeva un lavoro, andavo a trovarlo. Viveva con la madre Susanna dalle parti di Rebibbia, una casa né urbana né rurale […]. Lì la fame, anni durissimi». E fu proprio Caproni, con cui strinse amicizia, a presentargli Carlo Emilio Gadda e Attilio Bertolucci, che gli procurò il suo primo contratto editoriale. A quegli anni risalgono il racconto Ferrobedò, pubblicato sulla rivista “Paragone”, il poemetto L’Appennino e altre poesie come Il testamento di Coran. Bastano queste poche righe per mostrare quanto quella fase, seppur complicata dalle difficoltà economiche, sia stata importante per la formazione di uno dei più grandi intellettuali del nostro Novecento. In quell’appartamento aleggiano ancora i Ragazzi di vita: il Riccetto, Marcello, il Caciotta, Alduccio, il Lenzetta, Genesio, il Begalone, il Pistoletta. E sui campi polverosi di periferia Pasolini amava anche giocare a calcio, come ala destra: Stukas era soprannominato, come i veloci aerei tedeschi durante la guerra. In quella stessa borgata in cui ha vissuto alcuni anni della sua vita e da cui ha tratto ispirazione. A poche centinaia di metri c’è la “marana”, sotto ponte Mammolo, dove fu girato l’indimenticabile documentario di Cecilia Mangini, La canta delle marane, con i testi originali di Pasolini. Il legame profondo che lo ha sempre unito all’umanità delle borgate traspare da queste parole che accompagnano le immagini, parole che suonano come un monito, ancora oggi, dopo più di mezzo secolo: «Eppure erano bei tempi, i tempi delle marane. Quando ci ripenso, mi pare che è passato un giorno, invece sono passati un sacco di anni e manco me ne sono accorto e mo, quando vedo i ragazzini che a noi grandi ci considerano tutti una massa di mammalucchi, un giorno mi viene voglia di dargli un sacco di botte, un altro giorno di tornare con loro. Il mondo da un bel pezzo li ha mollati in marana, se ne ricorda solo per curiosità, qualche volta per paura. Così loro se ne fregano del mondo come è oggi, impuniti, liberi, testardi. Li affari loro hanno imparato a farseli da soli, soli e inguattati tra le marane e l’erba. Per questo devono esservi nemici». La targa in piazza Ferriani non può restare l’unica testimonianza del passaggio di Pier Paolo Pasolini a Rebibbia, mi piace immaginare di poter salire, un giorno, le scale di quella palazzina in via del Tagliere, bussare alla porta di quella casa al primo piano e ritrovarmi immersa nel suo mondo, almeno per un po’.