La guerra nelle Alture del Golan e in Libano

Il quadro dello scontro ai confini tra Israele, Libano e Siria è attualmente ben più complicato di quanto non sembri.
Recentemente, ovvero alla metà del mese scorso, un alto grado delle Forze di Difesa di Israele ha annunciato pubblicamente che l’Iran sta organizzando un comando periferico in Libano, appunto, nell’area meridionale di quel Paese, zona tradizionalmente controllata da Hezb’ollah e da gran parte, ormai, dell’esercito regolare libanese, che è finanziato tradizionalmente dagli Usa e dall’Arabia Saudita.
Da Washington le FF.AA. di Beirut sono sostenute per oltre 1,5 miliardi di dollari, ma anche dai sauditi, per altri 3,5 miliardi di Usd, e Riyadh opera anche con finanziamenti per la sicurezza, l’intelligence e la polizia territoriale.
L’Iran concederà ulteriori finanziamenti alle forze di Beirut al fine di creare un collegamento stabile tra Teheran e la costa mediterranea, peraltro uno degli obiettivi di grand strategy della dirigenza sciita nella guerra in Siria.
E questo, certamente, modificherà l’atteggiamento dei sauditi e degli stessi Stati Uniti nei confronti delle Forze Armate libanesi.
Obiettivi strategici, quelli iraniani, pensati per evitare il condizionamento, per Teheran, da parte degli interessi tattici di Hezb’ollah.
Che sono solo antiisraeliani, ma l’eccesso di sforzi e risorse iraniane per il Libano e lo scontro contro la “entità sionista”, come loro chiamano Israele, non assorbe tutti gli obiettivi strategici di Teheran.
Che vuole l’egemonia in una zona che va dalle coste libanesi del Mediterraneo fino alle aree sciite dell’Afghanistan.
Ma le operazioni in Siria hanno il fine, sempre per Teheran, di creare le condizioni di un attacco simultaneo e doppio, sempre verso Israele, che parta dalle alture del Golan e dall’area del Litani, con o anche, perfino, senza il “partito di Dio” degli sciiti libanesi.
Basta che evitino le azioni anti-iraniane all’interno dello stato libanese.
Quindi, lo scontro aereo avvenuto in Siria e poi sul territorio israeliano, il 10 Febbraio scorso, ha comportato la perdita di un F-16C di Gerusalemme, decollato dalla base di Ramat David, che apparteneva al 110° Squadrone, di un F-15I che è stato colpito ma non distrutto dalla difesa aerea di Bashar el Assad, oltre al danneggiamento di alcuni aviogetti colpiti dalla contraerea siriana, di un elicottero di Israele colpito sui cieli delle Fattorie di Sheba, infine di un drone di attacco, di fabbricazione iraniana, del tutto abbattuto.
I piloti israeliani avevano l’ordine esplicito di evitare qualsiasi aviogetto russo, naturalmente; e il governo di Gerusalemme è estremamente attento a non urtare la sensibilità strategica di Mosca, il nuovo leader globale del Medio Oriente.
Gli aerei di Israele erano un F-16I Sufa e un F-15I Baaz.
Le difese aeree di Assad e dell’Esercito Arabo Siriano hanno inoltre a disposizione i sistemi russi a lungo raggio S-125 e S-200.
Lo S-125 (nome in codice NATO SA-3 GOA) è un missile di vecchio design e con gittata di 25 chilometri ma che, se modificato, come accadde fin dalle guerre balcaniche dei primi anni ’90, può colpire aerei capaci di altissime velocità a varie altitudini.
Lo S-200, invece (nome in codice NATO SA-5 Gammon) è un missile a lunga gittata (200-350 chilometri) ma entrambe le tipologie russe di missile terra-aria sono a guida semi-automatica; ed oggi gran parte delle batterie è fornita di sistemi per la difesa AEW, lo Airborne Early Warning and Control.
Le velocità di entrambi i sistemi terra-aria sono ancora notevoli.
E’ quindi evidente che, dato che i Servizi russi controllano sia le singole batterie di lancio di missili terra-aria che tutte le reti di controllo elettronico dello spazio siriano, turco del Sud, Libano e dell’Israele Settentrionale, i russi hanno dato l’OK per l’azione contro gli aerei e l’elicottero israeliani.
E quindi hanno deciso, o magari accettato la decisione altrui, di colpire gli apparecchi dello Stato ebraico.
Ma quale è quindi la logica strategica di Israele e degli altri attori regionali e globali nel quadrante siriano?
Il segnale dell’abbattimento degli aerei israeliani è un dato da non trascurare, sia sul piano tattico che su quello geopolitico.
Due velivoli persi poi sono un problema, certamente, ma non irresolubile.
Si tratta di un dato operativo e strategico da studiare con attenzione, un probabile game-changer in tutto il sistema siriano-libanese.
Gerusalemme ha, sulla base di una prima valutazione dei fatti. perso la superiorità aerea nella regione libanese-siriana proprio nel momento in cui la Federazione Russa ha venduto, o ceduto, alla Siria di Bashar el Assad un sistema di missili terra-aria S-400, alla fine del Novembre 2015.
Lo S-400 Triumph, codice NATO SA-21 Growler, con gittata massima di 400 chilometri, lancia i suoi missili a una velocità di 4,8 chilometri/secondo, individua fino a 36 o addirittura 80 obiettivi contemporaneamente, quindi è difficilmente saturabile.
E si tratta inoltre di un sistema d’arma che è stato già venduto alla Cina, nel 2014 e alla Arabia Saudita, nell’ottobre 2017.
La Russia, quindi, dato il suo controllo pieno e incontrollato dello spazio aereo siriano e nel vasto contorno strategico della Siria, ha evidentemente avallato, de facto, i raid israeliani su obiettivi posti sia nelle aree siriane che in Libano.
I raid di Gerusalemme sono già significativi.
Pensiamo qui all’attacco aereo degli aerei di Gerusalemme agli inizi del settembre 2017, con una operazione a Masyaf, nella Siria occidentale, una missione portata avanti dagli israeliani poco dopo che l’Onu aveva accusato il governo di Bashar el Assad dell’attacco con armi chimiche a Khan Sheykhoun, avvenuto nell’Aprile 2017.
All’epoca, sia i russi che i siriani del governo di Assad avevano assicurato l’Onu e gli altri players che nessuno aveva mai usato armi proibite.
Ma i malati avvelenati e incapaci di respirare erano comunque presenti negli ospedali, per dimostrare il contrario di quello che era stato dichiarato ufficialmente dal nesso militare sirio-russo.
Un peso, per Mosca, la facilità con cui gli alleati siriani la mettono in difficoltà nei confronti degli occidentali e delle altre potenze globali.
Che cosa voleva e vuole mostrare dunque Israele con questi raid, l’ultimo dei quali risultato sfortunato per la “fionda di Davide”?
In primo luogo, si vuol far capire a tutti i players regionali che la “red line” tra il territorio dello Stato ebraico e quello siriano-libanese è ancora pienamente vigente.
In secondo luogo, ma questa questione è strategicamente primaria, Gerusalemme vuole mostrare quanto sia pericoloso, per l’Iran, cercare di costruire le sue nuove basi avanzate nell’area di confine tra il Golan e il fiume Litani in Libano e, infine, Israele vuole perfezionare sempre di più gli attacchi dall’aria per evitare, o posticipare, un intervento da terra.
Le tecnologie per le azioni dal cielo sono già state, in gran parte, elaborate.
Si tratterebbe, per quanto ci risulta, di una combinazione di micro-intelligence sul terreno, di nuove armi teleguidate ma ad altissima precisione, della nuova distribuzione dei sistemi di difesa, costruiti e posti sul terreno in modo tale da colpire diverse migliaia di obiettivi entro, al massimo, un’ora.
Certamente, è molto probabile che esista una nuova base iraniana a sud di Damasco.
Una postazione soprattutto fornita di aviazione, ma interamente gestita e controllata dalla Forza Al Quds delle Guardie della Rivoluzione iraniana, con l’alta probabilità di aggiungere dei sottomarini nelle aree costiere controllate da Hezb’ollah in Libano.
Quindi, o uno scenario di attacco ad Israele da un fronte unificato nel Nord, tra Siria, Golan e area libanese del Litani, o ancora un altro scenario, ancora più pericoloso per Gerusalemme, in cui lo stato ebraico verrebbe attaccato da Nord e da Sud contemporaneamente.
Il primo attacco avverrebbe secondo il modello già sperimentato da Hezb’ollah nel 2006, ma anche nel 2004, ma stavolta insieme alle FF.AA. libanesi.
Il secondo attacco potrebbe avvenire quando movimenti modellati su quello di Hezb’ollah saranno attivi e pericolosi anche nell’area palestinese a Est e a sud di Gerusalemme, come il recentemente fondato Al Sabiroun, nella Striscia di Gaza.
Anche il Jihad islamico, una organizzazione palestinese fondata nel 1979, sempre a Gaza, da una rete precedente dei Fratelli Musulmani, è oggi residente con i suoi dirigenti a Damasco dal 1988.
Ma oggi i finanziamenti di Teheran sono scarsi, per questa organizzazione sunnita che ha, fin dall’inizio, accettato e sostenuto la Rivoluzione degli Ayatollah del 1979, come peraltro fece anche Yasser Arafat.
E’ bene ricordarlo sempre.
Vi è infatti una stretta continuità tra la rivolta palestinese “laica” e marxista, che ancora piace tanto alle molte anime belle della UE; e la torsione jihadista e islamista “radicale” che appare, ai dilettanti della politica mediorientale, una novità rispetto al modello parasovietico dell’OLP di Yasser Arafat e dei suoi molti gruppi interni.
Con HAMAS, poi, i rapporti di Teheran sono rapsodici, proprio in corrispondenza dello stretto legame, rafforzatosi dal 2011 in poi, tra questa struttura militare palestinese, anch’essa originatasi da una cellula della Fratellanza Musulmana e i sauditi.
Ma i tempi dell’attacco combinato da Sud saranno quelli, con ogni probabilità, connessi allo sviluppo e alla preparazione militare di Al Sabiroon.
Che dovrà essere almeno pari a quella di Hezb’ollah.
L’Iran ha però già da tempo disposto, secondo alcune fonti, ben 70.000 missili in Siria, tutti diretti o dirigibili verso Israele.
La Forza Al Quds ha, inoltre, già dislocato ben 5000 soldati nell’area intorno a Damasco e a circa 50 chilometri dal confine con Israele.
Poi vi sono i gruppi militari sciiti, che si avvicinano spesso al confine con Israele e, talvolta, lo passano.
Inoltre, l’Iran arma e addestra in Siria battaglioni sciiti provenienti dalle varie regioni di quel Paese, come quello Al Baqr e il Battaglione 313.
Quest’ultima unità sciita siriana ricorda il numero dei combattenti di Maometto nella Battaglia di Al-Badr, ma si chiama in effetti “La Brigata del Grande Apostolo” mentre è bene ricordare che il numero 313 riguarda anche l’escatologia esoterica connessa all’arrivo finale del Mahdi, Colui che porrà termine al mondo.
La Brigata 313 si trova, secondo le nostre fonti, ancora nell’area di Homs, nella cui zona meridionale operano ancora jihadisti.
Ma il numero delle brigate o battaglioni di militanti sciiti di origine siriana, sempre tutti addestrati dai Pasdaran, è attualmente di cinque unità, tutte dislocate tra il centro e il sud della Siria e tutte con comandi autonomi, ma diretti di fatto da ufficiali iraniani della Forza Al Quds.
Le operazioni di camuffamento e di inganno strategico dei numerosi missili iraniani sono state tutte direttamente autorizzate da Bashar el Assad e condotte da Iran e Hezb’ollah con il sostegno attivo dell’Esercito Arabo Siriano.
Entro un anno da oggi, sempre secondo queste fonti, la quantità di missili piccoli o grandi dovrebbe arrivare, secondo i programmatori iraniani e libanesi, ad un numero di oltre 500.000 vettori lanciabili.
Una saturazione dello spazio aereo che dovrebbe bloccare, secondo i tecnici di Teheran, le reazioni del sistema di protezione dallo spazio di Israele.
Netanyahu ha poi chiesto ufficialmente a Vladimir Putin, durante la visita di Stato israeliana a Mosca del 29 Gennaio 2018, di contenere, da parte russa, le operazioni anti-israeliane dell’Iran in Siria.
E’, poi, molto probabile che il leader israeliano abbia fornito a Vladimir Putin anche una buona quantità di dati di intelligence sulla minaccia iraniana verso lo stato ebraico a partire dall’interno della Siria.
La divergenza strategica tra russi e iraniani sul suolo siriano è poi già abbastanza evidente.
E sostanzialmente insolubile, stanti i dati oggi sul terreno.
Ma certamente Mosca non ha alcun interesse a creare ulteriori tensioni con Gerusalemme.
E’ probabile, quindi, che il permesso russo alle azioni di contraerea siriana (e forse iraniana) sia l’ultimo atto di una sequenza di segnali strategici tra Mosca e Washington sulla questione siriana.
Se è vero, infatti, che l’Iran è assolutamente indispensabile in Siria, per la Federazione Russa, al fine di evitare un troppo pesante impegno di Mosca a favore di Assad, certamente i russi però non vogliono creare un sistema politico e strategico in cui Bashar el Assad sia sottoposto solo ed unicamente alla volontà di Teheran.
Finiti gli scontri sul terreno, Mosca ridisegnerà la mappa siriana evitando che quel paese si frazioni, anche in modo implicito e sottile, in varie regioni, tutte con un differente padrinage esterno.
E i russi non vogliono certo garantire all’Iran un contesto sciita che va dall’Iraq fino alla Siria, per arrivare senza soluzione di continuità alle coste mediterranee.
Mosca vuole, inoltre, il rafforzamento e il successo finale delle trattative di Astana, un sistema di decompressione del conflitto siriano che vede implicati inevitabilmente altri due players, oltre la Russia, ovvero l’Iran e la Turchia.
Turchia contro l’Iran, malgrado i recenti buoni rapporti tra Ankara e Teheran, sanciti dall’incontro dei primi di ottobre 2017.
Una visita avvenuta, significativamente, mentre la dirigenza saudita era in visita ufficiale a Mosca.
La Federazione Russa, da ora in poi, giocherà quindi Ankara contro Teheran e viceversa, per evitare di perdere il ruolo di attore principale in Siria e, ormai, nel resto del Medio Oriente.
Ma qui serve ancora un buon rapporto tra Mosca e Israele.
Ecco quindi perché, da un lato, Bashar el Assad ha sempre meno interesse a sostenere le mire postbelliche dell’Iran e non opera direttamente, almeno per ora, contro le forze turche entrate ad Idlib.
E ciò accade mentre Damasco opera, ormai esplicitamente, a favore dei curdi, combattuti storicamente da Ankara e oggi abbandonati di fatto dagli Usa.
Ma è di poche ore, dal momento in cui scriviamo, che ci giunge la notizia di un nuovo accordo tra Washington e la dirigenza curda in Siria.
Ankara e Damasco, oltre che Mosca, hanno comunque ogni interesse a evitare che i curdi modifichino la complessa composizione etnica delle aree sotto il loro controllo, ma qui l’unico mediatore possibile è la Federazione Russa.
E si tratta anche di un primario interesse strategico israeliano.
Peraltro, le aree maggiormente ricche di petrolio e acqua della Siria sono oggi tutte sotto il controllo diretto dell’YPD curdo, il che creerà le condizioni ulteriori per una mediazione russa.
Ciò accade mentre gli Usa sono ormai ambiguamente in fuga dal sostegno ai curdi, che pure hanno armato e addestrato finora.
Inoltre, Washington ha oggi rapporti critici anche con i turchi, che non hanno mai apprezzato il doppio standard strategico di Washington in Siria.
Ma oggi, dopo la telefonata di Putin a Netanyahu del 18 ottobre scorso, intesa ad evitare un climax militare in Siria e, in particolare, a proteggere le sue forze, distribuite dentro tutte le reti iraniane e di Hezb’ollah, occorre vedere qualche altra variabile di questa complessa equazione.
Le operazioni di Israele potrebbero colpire anche la base russa Tiyas, ovvero la T4 vicino a Palmira, la base dalla quale sarebbe peraltro partito il drone iraniano, copiato da un vecchio drone Usa perduto dagli americani anni fa.
La base ospita attualmente quattro squadroni dell’aria.
In altri termini, il messaggio a Gerusalemme da parte di Mosca è semplicemente questo: accettate, amici israeliani, la nuova egemonia russa in Siria e in Medio Oriente e così non vi accadrà nulla.
Né da parte degli iraniani né di altri.
Però, voi israeliani, dice ancora Mosca, smettete di mettere in grave pericolo la vita e le operazioni dei soldati russi presenti nell’area.
E di mettere poi in difficoltà le forze russe nei loro rapporti con quelle iraniane e siriane, che potrebbero metterci in difficoltà proprio a causa della nostra amicizia con voi, cari amici israeliani.
Israele non può fare a meno, allora, dell’alleanza con la Federazione Russa, mentre la Russia non può però dimenticarsi di quanti e quanto importanti siano gli ebrei russi emigrati nello stato ebraico.
E di quanto sia stretta la collaborazione russo-israeliana nel settore tecnologico, militare, informativo, culturale.
I militari russi in Siria rappresentano due variabili strategiche, per Israele: da un lato, evitano che lo scontro nel Golan e, poi, in Libano, visto il consolidato sistema di passaggio terrestre in Siria tra Teheran e Beirut, sia diretto massicciamente verso Israele, che non è affatto un nemico di Mosca.
Dall’altro lato, i militari russi presenti in Siria evitano che lo stato ebraico colpisca, chirurgicamente o meno, le forze iraniane e di Hezb’ollah operanti sul terreno.
Mosca, poi, sa benissimo che le operazioni in Siria hanno creato, per reazione, una forte alleanza sunnita, siglata con l’esclusione del Qatar agli inizi del giugno scorso.
E Israele ha, ormai, ottimi ma riservati rapporti con il nuovo universo politico sunnita.
E i russi, infine, non hanno alcuna intenzione di rompere ogni legame, a causa della loro alleanza con l’Iran in Siria, con il mondo dominato dai sauditi e dalle altre potenze del Golfo.
Troppi affari sono già in atto, ma soprattutto qui è in gioco la sapienza strategica di Mosca nel proporsi come mediatore globale dell’area mediorientale, senza mai dimenticare nessuno.
Peraltro, la Federazione Russa sa bene che, senza il sostegno di Hezb’ollah e degli iraniani, non avrebbe certo potuto sostenere lo sforzo di una guerra solitaria contro l’Isis e i suoi alleati in Siria; elementi terroristi e jihadisti califfali peraltro sostenuti, come correttamente dichiarò Putin nell’ottobre del 2015, da molte potenze occidentali e dai loro referenti mediorientali.
Inoltre, la Federazione Russa vuole realizzare, con la sua nuova dominance in Siria, un progetto di relazione forte con gli Usa e ristabilire, così, una nuova “parità strategica” con Washington.
E’ proprio tramite la guerra in Siria che Mosca vuole uscire dal suo vecchio ruolo post-1989 di “potenza regionale” per ritornare ad essere un player globale.
Ma come arrivare a questo fine senza il sostegno, regionale e non solo, di Israele?
Comunque, non dimentichiamolo, l’Iran è assolutamente necessario per la Federazione Russa sia per la creazione del blocco eurasiatico, asse futuro e centrale della geopolitica di Putin e, ancora, per il nesso petrolifero tra Mosca e Teheran, anch’esso irrinunciabile.
Nel mese di agosto dello scorso anno, peraltro, vi sono stati contatti segreti tra Israele, Russia e Stati Uniti ad Amman.
Giordania e Stato Ebraico hanno fatto notare, soprattutto alla Russia, che le “zone di de-escalation” progettate negli accordi di Astana e poi confermate dalla Conferenza di Pace di Ginevra, hanno una dislocazione che avrebbe permesso alle FF.AA. iraniane e ad Hezb’ollah di attaccare con maggiore facilità le postazioni israeliane.
E, naturalmente, giordane.
Ricordiamo qui che le “zone di de-escalation” in Siria sono: 1) l’area di Idlib e quella a nordest di Latakia fino al nord della zona di Homs, 2) le enclaves di Rastan e Talbiseh, sempre nel nord della provincia di Homs, 3) l’area ad Est di Ghouta nella regione a Nord di Damasco, 4) l’area ai confini della Giordania, con ulteriori zone protette nella periferia di Deraa e di Quneytra.
Giordani e israeliani hanno poi aggiunto, sempre in quell’incontro segreto, che sarebbe stato preferibile, per loro, un controllo diretto dei russi presso il confine tra Siria e Giordania.
Russia e Usa, stavolta unite, volevano solo raggiungere al più presto un accordo sul cessate-il-fuoco nel sud della Siria, inevitabile per attaccare con successo le zone detenute ancora dal Daesh-Isis.
Era questo il senso strategico della riunione di Amman.
Gli israeliani chiesero inoltre, in quel momento, ma solo alla Federazione Russa, di creare una zona di almeno 20 chilometri di distanza dal confine israeliano con la Siria che fosse del tutto priva di postazioni iraniane o di Hezb’ollah.
C’era anche la possibilità che gli israeliani chiedessero a russi e Usa di far uscire dalla Siria tutte le forze iraniane e degli alleati di Teheran.
Niente da fare. Ovviamente. Nessuno dei due maggiori attori globali, Russia e Usa, ha interesse a mandare fuori dalla Siria gli iraniani.
Mosca non può farne a meno, come abbiamo già visto.
Ma gli Usa non hanno nemmeno alcuna intenzione di entrare direttamente, con molti boots on the ground, nel caos siriano, preferendo piuttosto un equilibrio militare e geopolitico tra i loro vari client groups.
La visita, poi, del ministro russo della Difesa Shoigu in Israele, alla metà dell’Ottobre 2017, non ha parimenti risolto la questione primaria, la presenza eccessiva di armi e uomini iraniani o ad essi collegati vicino al confine delle Alture del Golan.
Israele vedeva infatti l’apparizione dell’Isis in Siria come una ottima opportunità per abbattere Bashar el Assad.
Nemico sempre se preso da solo; ed inoltre sostenitore fedele di Teheran.
Netanyahu ha però ripetuto a Shoigu il concetto che abbiamo già notato, ovvero che le zone di de-escalation non garantiscono affatto l’assenza di milizie sciite al confine siro-israeliano.
Probabilmente, ne favoriscono il trasferimento verso le alture del Golan e, di lato, verso il Libano.
Una soluzione possibile è che, dopo la distruzione delle ultime sacche di resistenza dell’Isis-Daesh, la Russia stia davvero terminando le sue operazioni in Siria.
E questo implicherà presto l’uscita anche degli iraniani e di Hezb’ollah, oltre che delle altre milizie sciite.
Un ritorno in patria che sarà controllato, secondo le nostre fonti, dalla Federazione Russa e da altri attori regionali e globali, nessuno particolarmente interessato a favorire Teheran.
Se quindi Israele convincerà la Federazione Russa ad una parallela uscita dalla Siria, credibile e geograficamente verificabile, anche delle forze iraniane e filo-iraniane, allora la tensione sui confini, ma anche la linea di collegamento diretta tra Teheran e Beirut potrebbe essere interrotta o danneggiata.
Ma, certamente, lo stato ebraico non potrà non mantenere una sorveglianza attenta sui suoi confini, e verificherà con altre azioni, ma non necessariamente con l’aviazione, la volontà di Mosca di difendere ad oltranza le postazioni iraniane.

Giancarlo Elia Valori