Magistratura, indipendenza non vuol dire irresponsabilità

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in foto Carlo Nordio, ministro della Giustizia

È sempre complicato affrontare un argomento spinoso quando ci sono di mezzo le persone in carne ed ossa. Quando gli interlocutori, i portatori di tesi diverse se non proprio opposte, hanno un nome e un volto. In questi casi si rischia di mettere a confronto dosi crescenti di amor proprio invece che le ragioni dell’una e dell’altra parte. Con il risultato di radicalizzare lo scontro.
Ancora di più se la materia del contendere è la gestione della giustizia in Italia. Che non funzioni è un dato di fatto difficile da confutare. E naturalmente le spiegazioni divergono tantissimo a seconda delle circostanze e degli interessi in gioco. O del punto di osservazione che induce al gioco delle parti per cui il garantista diventa giustizialista e viceversa a giorni alterni.
Di fronte a un dibattito segnato da una buona dose di schizofrenia, il lettore-elettore sbanda e accorda il suo favore a questa o quella tesi anche in funzione del buonumore o della fortuna del momento. Difficile in queste condizioni che il ragionamento abbia la meglio sulle invettive che le parti del momento si scagliano addosso già pronte a cambiare idea e schieramento.
I cattivi esempi che la cronaca s’incarica di mostrare ai cittadini s’infittiscono ogni giorno di più. E dopo l’ubriacatura vissuta al tempo di Tangentopoli e la ricaduta subita nel periodo d’oro dei 5Stelle, qualche dubbio sull’imparzialità di taluni procuratori della Repubblica o sulla neutralità di certa polizia giudiziaria è cominciato a serpeggiare. Colpevole subito è una formula che non funziona più.
Ma la lotta politica non conosce regole e la cattiva abitudine di affidare ad altri corpi dello Stato, in questo caso la magistratura, il compito di sgombrare il campo dagli avversari è così radicata nel mondo dei partiti e degli affari da tentare tutti o quasi, a turno debito, di farne uso. Cosicché il desiderio di prevalere per via giudiziaria incoraggia il malcostume confondendo torti e ragioni.
Per uscire dal circolo vizioso e riprendere la retta via non resta che affidarsi alle massime dei maestri del diritto che tutto avevano visto e previsto nell’epoca in cui le idee non erano disprezzate. Se il loro insegnamento non si fosse perso nelle nebbie della polemica spicciola non ci troveremmo a dover regolarmente assistere a imbarazzanti bracci di ferro.
Partendo dalla divisione classica dei tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – impostata da Montesquieu, quel genio di filosofo e giurista di Alexis de Tocqueville spiega che la prima caratteristica del potere giudiziario, presso tutti i popoli, è di fungere da arbitro. Di conseguenza, solo una denuncia può promuovere un’azione da parte dei tribunali e avviare un processo.
Il contrario di quello che oggi accade in virtù della cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale che a dispetto dei motivi che l’hanno ispirata conferisce piena discrezionalità al pubblico ministero che mira dove più gli sembra conveniente anche per la sua carriera. E i sondaggi affermano che sempre meno italiani si sentono protetti e rassicurati dall’attività della magistratura.
E non si può nascondere che inquirenti da una parte e giudici terzi dall’altra svolgano mestieri differenti, che come tali devono essere trattati se si vuole evitare l’impressione (che spesso diventa fatto compiuto) di un rapporto privilegiato tra le toghe che penalizza le ragioni della difesa. Separare le carriere diventa indispensabile per recuperare un minimo di serenità e fiducia.
Quanto più i poteri sono in equilibrio tanto più è salvaguardata la libertà di un popolo. L’indipendenza di uno dall’altro dev’essere garantita ma in nessun caso può tracimare in arrogante irresponsabilità. Le riforme in ballo non servono ad accontentare o punire questo o quella ma a ripristinare semplici e fondamentali principi di buon governo in una comunità che ambisce a mantenersi democratica.