Aggressioni in corsia, camici rosa imparano a difendersi

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Milano, 15 nov. (AdnKronos Salute) – “A livello italiano non abbiamo statistiche sulle aggressioni fisiche e verbali agli operatori sanitari. L’unica disponibile, redatta nel 2018 da Anaao Assomed”, segnala che su un campione di circa 1.300 camici “il 66% dichiara di aver subito un qualche tipo di violenza (nel 33% dei casi fisica), con punte fino all’80% fra gli operatori di pronto soccorso. In molti di questi episodi di violenza c’è una specifica connotazione razziale e sessista. E’ qualcosa che noi donne medico verifichiamo spesso e non è un fattore secondario”. E’ la fotografia scattata da Barbara Giussy, dirigente medico, ginecologa del Soccorso violenza sessuale e domestica (Svsed) del Policlinico di Milano, oggi a Milano durante il convegno ‘Sicurezza e malattie cardiovascolari nella donna’, organizzato dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere (Onda) in collaborazione con Daiichi Sankyo Italia.

Una giornata tutta al femminile in cui si è spaziato dalla salute del cuore rosa fino al tema della gestione delle aggressioni fisiche e verbali nella pratica clinica, con tanto di dimostrazione pratica di tecniche di difesa personale, a cura della scuola Krav Maga di Gabrielle Fellus. Filo conduttore: la sicurezza delle donne, in ogni sua sfaccettatura. Negli Usa, spiega Giussy, “hanno una particolare sensibilità sul tema dell’aggressività in corsia. Ma in Italia oggi esistono delle linee guida che sono state redatte dal ministero della Salute nel 2017. La Raccomandazione numero 8 per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari è il primo atto italiano a livello governativo in cui si prende atto dell’elevata frequenza di questi episodi e si danno indicazioni per affrontare il problema all’interno delle aziende sanitarie e dei luoghi di lavoro”.

Questa direttiva “dovrebbe essere recepita da tutte le aziende sanitarie e bisognerebbe costituire a livello di ciascun ospedale una task force in modo da riuscire a capire quali sono le condizioni di vulnerabilità all’interno di ogni struttura, qual è la frequenza con cui si verificano gli episodi di aggressione e quali le metodiche preventive e di cura degli operatori sanitari”.

Anche a livello regionale qualcosa si muove. In Lombardia, per esempio, è in dirittura d’arrivo il piano ‘ospedali sicuri’, che al momento è in corso di attuazione nella provincia di Milano e prevede da accessi vigilati ai pronto soccorso all’installazione di impianti di videosorveglianza, fino alla formazione degli operatori. “I sopralluoghi sono già stati effettuati, per rilevare le tante criticità che ci sono negli ospedali” sul fronte sicurezza, spiega Maria Patrizia Casura (Questura di Milano). “Dalla mancanza di videosorveglianza all’assenza di personale di vigilanza. E questa sarà un’incombenza dei vari presidi”.

La prevenzione, riflette Casura, “è infatti la strategia che ci può aiutare maggiormente a ottenere un controllo più efficace. Quando è in atto un’aggressione, invece, la condotta da seguire prevede di prendere tempo e allertare le forze dell’ordine tramite 112”. Altri suggerimenti dati alle strutture spaziano dalla possibilità di prevedere dei pulsanti in grado di inviare un alert al personale addetto alla sicurezza, fino all’opportunità di allestire una stanza dalla quale il personale di vigilanza possa monitorare costantemente la situazione.

“L’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro riporta delle percentuali allarmanti” sugli episodi di aggressività in corsia “anche a livello europeo – evidenzia Giussy – e suggerisce un approccio che comprenda almeno 3 punti: cercare di contenere il disagio e supportare gli operatori che subiscono aggressioni, i quali spesso riportano sequele psicologiche, burnout, difficoltà che portano ad assenze lavorative; fare un piano aziendale di prevenzione con un’organizzazione gestionale e manageriale dell’attività negli ospedali; formare adeguatamente il personale sanitario con corsi di gestione dell’aggressività degli utenti che aiutino per esempio gli operatori a frenare in tempo l’escalation di violenza e diano indicazioni su come muoversi per chiedere eventualmente aiuto”.

I casi che finiscono alla ribalta delle cronache, ragiona Giussy, “sono solo la punta dell’iceberg”. Importante è anche, aggiunge, “la segnalazione degli episodi di violenza come eventi sentinella, per permettere di identificare particolari situazioni a rischio”. Una recente indagine peraltro rileva che gli atti di aggressività verbale e fisica si concentrano soprattutto nelle aree dell’emergenza urgenza, nei servizi psichiatrici, nei Sert, nella continuità assistenziale, nei servizi di geriatria. La presenza di un operatore da solo incrementa il rischio, i luoghi di attesa in generale sono particolarmente esposti.

Sull’aumento dell’aggressività “pesano fattori sociali, come dimostra l’aumento di questi episodi anche nei confronti di altre categorie, per esempio gli insegnanti – approfondisce Giussy – Ci sono poi fattori legati al sistema sanità, colpito negli anni da definanziamento e caratterizzato sempre di più da carenza di personale, da un’offerta non uniforme sul territorio nazionale, da carenze manageriali e strutturali e carenze comunicative da parte di operatori sempre più sotto stress e con poco tempo da dedicare”. Spesso ad accendere la rabbia sono le attese prolungate, in condizioni non consone.

“Saper spiegare, abbassando i toni dello scontro, i motivi che portano a certe problematiche, capire il perché di certi atteggiamenti aggressivi, spesso è una carta vincente – conclude l’esperta – Se questi tentativi falliscono è importante sapere come chiedere aiuto e a chi rivolgersi”.