Il Complice. Capitolo 7

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Pubblichiamo il  settimo capitolo de “Il Complice” di Procolo Ascolese, opera vincitrice del “Concorso Letterario Autore di te stesso – Premio Nazionale Campi Flegrei nella categoria editi”.   
Avvocato cassazionista, (il suo studio legale presta attività di assistenza e consulenza in materia penale), giudice onorario del tribunale penale, Procolo Ascolese si è occupato di numerosi processi penali ed è autore di innumerevoli pubblicazioni tra le quali ricordiamo: “I limiti dell’assunto accusatorio nell’applicazione della legge penale” (Aracne, 2014); “Dentro la giustizia. Breve viaggio nelle dinamiche del processo penale, dal delitto di Avetrana al caso ThyssenKrupp” (Il Papavero, 2021); “L’araba infelice nazifascista. Prunajo al Passo dell’Aprica” (Franco Mauro Editore, 2021).

in foto Procolo Ascolese

IL COMPLICE
di Procolo Ascolese

Settimo episodio

L’avvocato Rongaldi afferrò con la mano sinistra la foto e la guardò, prima da lontano e poi avvicinandosela fino alla distanza di un paio di centimetri dagli occhi, che di tanto in tanto gettava sulla pietra afferrata con l’altra mano. «Ora capisco», poi disse continuando a fissare la fotografia, «si tratta proprio della stessa pietra! Incredibile!».
«Vede, avvocato, io sono mancato all’udienza proprio perché mi sembrava importante sapere come mai quel frate avesse con sé un oggetto della bambina della cui scomparsa sono stato accusato e finora considerato colpevole…».
«Certo, capisco. In effetti, saperlo poteva essere importante. Quel frate avrebbe potuto aiutarci a capire con quali persone Milena avesse avuto contatti nel periodo in cui non se ne avevano più notizie».
«Mi chiedo, avvocato, chi possa avere ucciso quel frate e perché?… ».
«Vede, signor Salvati, i moventi che ispirano un omicidio possono essere diversi: amore, orgoglio, ambizione, vendetta, smodata passione politica, invidia… L’omicidio di un frate, però, può anche affondare le sue radici in motivazioni legate al peculiare ministero svolto dal religioso».
«In che senso?».
«Nel senso che autore dell’omicidio potrebbe essere, per esempio, un soggetto che sia portatore di un acceso fanatismo religioso, oppure del timore di vedere violato il segreto confessionale… Può darsi che il frate serbasse un segreto molto pericoloso…».
«Che ne pensa, avvocato, dell’arresto di Giacomo De Lucias e della sua quasi immediata scarcerazione?».
«Il De Lucias arrestato!? Quando è successo?».
«Mi scusi, avvocato, se mi permetto di chiederglielo: ma lei non sa che il mio accusatore è stato inizialmente coinvolto nell’omicidio del frate cappuccino?!».
«No. Per la verità, ho letto sui giornali il nome Giacomo De Lucias, ma non ho minimamente immaginato che potesse trattarsi dello stesso De Lucias. Ma ne è proprio sicuro?».
«Sicurissimo, avvocato: ho visto la sua faccia in televisione».
«Ma qui c’è qualcosa che non quadra. Lei è accusato di aver fatto sparire, per un po’ di tempo, una bambina. L’accusa viene sostenuta dal padre di quest’ultima, a sua volta sospettato quale possibile autore dell’omicidio di un frate. E nella borsa di questo religioso viene da lei rinvenuto un oggetto della bambina stessa. Che coincidenze!».
«Mi dica lei, avvocato, come dobbiamo comportarci?».
«Senta, signor Salvati, nonostante queste incredibili coincidenze, io non credo che possiamo scoprire qualcosa di utile per lei, poiché, vede, oggi è venerdì, e il processo in corte di appello è fissato fra qualche giorno. Ora, io non so proprio cosa dirle. Di certo, però, lei mi ha fornito elementi interessanti, il cui esame e la cui combinazione potrebbero farmi venire qualche idea. A questo punto, mi deve lasciare il tempo di riflettere, di esaminare, di verificare in che modo queste straordinarie coincidenze potrebbero armonizzarsi con le risultanze del processo».
«Va bene avvocato. Io ho qui con me, in questo sacchetto di plastica, ciò che ho trovato nella ventiquattrore del frate. Crede che questa roba possa in qualche modo agevolarla nella sua attività di studio?».
«Potrebbe, ma non sarebbe una buona idea lasciarla qui. Anzi, le dirò di più: lei deve al più presto disfarsene, se non vuole rischiare di passare un altro guaio!».
«Ma come, avvocato?! E poi? E chi può escludere che un giorno questa roba possa essere utilizzata a nostro favore?».
«Io non la sto invitando a gettarla nella pattumiera. Il frate di cui lei detiene la borsa, però, non è finito mica di morte naturale! Se qualcuno scopre che lei possiede queste cose, signor Salvati, cose che dovevano trovarsi nelle mani di un uomo rimasto ucciso, ritengo che avrebbe seri problemi a dimostrare agli inquirenti che lei non c’entra nulla con questo omicidio. E io non credo che lei abbia bisogno di finire nuovamente sotto processo. O mi sbaglio?».
«Ma in che senso, allora, potrei disfarmi di questa roba?».
«Se vuole evitare altri guai, deve riporre codesta roba nella ventiquattrore del frate cappuccino e, al più presto, consegnarla ai carabinieri».
«D’accordo, avvocato, farò come dice».
«Si fidi, signor Salvati, si fidi. Domani vada dai carabinieri e consegni loro tutto quanto, raccontando tutta la verità, e non si preoccupi. Adesso, però, dobbiamo salutarci. A lunedì!».
I due si alzarono quasi contemporaneamente per stringersi la mano. Poi la segretaria accompagnò Alberto alla porta.
Sabato, 22 gennaio. Alberto si svegliò col pensiero di recarsi quanto prima presso la più vicina stazione dei carabinieri. La cosa, però, gli destava una certa preoccupazione, non già perché paventasse di non riuscire a spiegare il modo in cui si era impossessato di quella ventiquattrore, ma perché non riusciva a prefigurarsi l’incontro con le divise nere senza rievocarne l’ultimo, ostile atteggiamento. Cominciò con lo svuotare il sacchetto di plastica sul tavolo della cucina. Poi aprì la ventiquattrore, riponendovi, innanzitutto, i disegni, che distese l’uno sull’altro, in modo che formassero una base unitaria. Su quest’ultima, poi, appoggiò tutto il resto: la bibbia, la corona del rosario, la brochure rettangolare, la targhetta recante il nome del frate e, infine, il libro contenente i vangeli, nel quale, tra la copertina e il frontespizio, inserì l’assegno di 15.000 euro emesso a favore del frate scomparso.
Richiusa la ventiquattrore, sentì bussare al campanello.
Alla porta gli si presentò un vigile urbano: «Senta, mi dice cortesemente chi è il proprietario dell’auto rossa parcheggiata qui fuori, in doppia fila?».
«In verità, non saprei…».
«Ma come!? Mi hanno appena detto di rivolgermi a lei!».
«A me?!».
«Scusi, ma lei non è il signor Carlo Di Stefano?».
«No, no, non sono io! ne occupo solo l’appartamento».
«E il signor Di Stefano?».
«Adesso è fuori Napoli».
In quel frangente, un altro vigile urbano, avvicinandosi al collega, gli chiese: «Hai risolto?».
«No, purtroppo il signore qui presente non è in grado di dirci nulla, dobbiamo per forza usare l’autocarro».
«Ma l’autocarro qui non può arrivare: tutte le strade principali sono completamente invase dal corteo funebre!».
«D’accordo, ma in qualche modo dobbiamo pur rimuovere quella macchina! Da qui, altrimenti, il feretro di don Eligio non potrà mai passare!».
Continuando a parlare tra loro, i due vigili si allontanarono, e, per qualche istante, Alberto li seguì con lo sguardo, rimanendo fermo sulla soglia, prima di chiudere la porta.
La riaprì però dopo qualche minuto, per uscire. Ma non portò con sé la ventiquattrore del frate. Aveva, infatti, cambiato improvvisamente idea, decidendo di assistere ai suoi funerali.
Fuori, l’auto mortuaria era ferma, il tempo uggioso e quasi ogni balcone carico di una moltitudine di persone affacciate.
Liberata la strada dall’intralcio dell’auto in seconda fila, il corteo funebre seguì lentamente il feretro, fino alla parrocchia nella quale ogni domenica don Eligio Clementi era solito celebrare la messa delle 11.00, e vicino alla quale lo stesso aveva perso la vita due giorni prima.
Tra le teste di quanti si stavano già accalcando davanti alla chiesa, serpeggiavano, in silenziosa attesa, i mezzi teleaudiovisivi.
Poi arrivò l’auto mortuaria, provocando un visibilio sincronico di flash abbacinanti.
Quattro uomini in abito scuro, estratta la cassa dall’auto, la sollevarono e la portarono a spalla, percorrendo la navata centrale. Il successivo abbassamento del feretro davanti all’altare troncò improvvisamente il mormorio dei presenti, alcuni dei quali, spostando repentinamente il capo tra gli altri, ora a destra, ora a sinistra, o alzandosi sulla punta dei piedi, cercavano di recuperare la precedente visione.
La chiesa era gremita di gente. Dall’altare Alberto era così distante, da non vedere il frate che intanto aveva preso la parola.
Ma ne udiva irradiata la voce: «…Con Eligio Clementi scompare una grande figura di cristiano e di uomo. E il concorso di folla a questi funerali e la commozione generale ne costituiscono il segno tangibile. Fu un uomo giusto, forte, coerente, prodigo di consigli e di incoraggiamenti verso il prossimo. In Eligio, sorretto da una fede incrollabile, umiltà e grandezza morale coesistevano, rappresentando i poli della sua personalità e, nel contempo, i fattori del suo particolare carisma. Vissuto in un epoca come la nostra, caratterizzata da significative trasformazioni culturali e sociali, Eligio non ha mai disancorato il suo operato dall’unico canone insuperabile, la parola di Cristo, nello sforzo di restituire continuamente significato e coerenza all’azione umana, altrimenti destinata a naufragare tra precarietà e incertezze… Da perfetto cristiano quale era, sapeva guardare al peccato senza preconcetti, nella comprensione più assoluta del peccatore. E per questa sua capacità, che lo rendeva gradito a tutti, la sua uccisione ci risulta ancora più incomprensibile. Fu protagonista, negli oltre trenta anni di legame a quest’ordine religioso, di grandi iniziative umanitarie, che non possono non investire tutti coloro, me compreso, che guardano al sacerdozio come a una missione di umana solidarietà, da compiere con coraggio, in difesa di irrinunciabili valori di vita. Noi cappuccini con lui parlavamo di tutto. Anche di ciò che se lo è appena portato via: anche della morte. E ne parlavamo proprio una settimana fa, in occasione del sorteggio a cui, tra il serio e il faceto, avevamo deciso di affidare la scelta dell’iscrizione funerea da far incidere sulla nostra lapide. E quella estratta per lui gli risultava strana, almeno rispetto alla sua esperienza di vita: beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli…».
Alberto fu assalito da un improvviso groppo alla gola, mentre il frate continuava a parlare del defunto: «… Ma Eligio Clementi non scompare. Egli continua a vivere nel ricordo trepido e commosso di quanti, come me, hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di apprezzarlo. Dopo aver dedicato la sua vita alla luce della verità, Eligio oggi è nella luce della patria celeste…».

7. Continua
(l’ottavo capitolo sarà in rete lunedì 6 maggio, dalle ore 8)