Favor debitoris

In Grecia incombono i festeggiamenti in piazza. Cosa festeggino gli amici greci non si sa. D’altronde non era chiaro, nemmeno a loro che dovevano votare, il reale contenuto del referendum, indetto, in quattro e quattr’otto dal masaniello ellenico Tsipras per legittimare il proprio ripudio del nuovo accordo con i creditori. Passi per l’allarme del Consiglio d’Europa sulla legittimità di una consultazione convocata in giorni dieci. Ma l’esito era d’altronde scontato: chi mai ha visto un debitore scegliere di onorare una propria obbligazione se posto innanzi all’illusione di poter ripudiare il proprio debito? Inutile sperare che gli elettori, ed ancor peggio i politici della moderna generazione (quelli, tanto per intenderci, che ragionano con la lunghezza temporale – ed argomentativa – propria di un tweet) possano tenere in considerazione il vecchio ammonimento einaudiano, per cui gli economisti servono per ricordare ai politici trionfatori che vicino al campidoglio vi è sempre la rupe tarpea. Ancor più inutile spiegare, come hanno fatto Bulow e Rogoff, che il reddito pro capite greco è cresciuto, dal 1995 al 2009 dal 41% del reddito tedesco al 71%, ricchezza prodotta grazie ad un irresponsabile indebitamento, consentendo ai greci, piaccia o non piaccia, di vivere al di sopra delle proprie possibilità, in un periodo in cui l’economia greca cresceva e che, quindi, avrebbe avuto senso cercare di risolvere allora il problema del già gravoso debito pubblico. Superfluo ricordare che dal 2009 al 2014 la ricetta – amara come tutte le ricette ed al netto degli errori compiuti dalle autorità europee – aveva ricondotto il reddito pro capite al 47% di quello tedesco. E che quest’ultima conseguenza non è solo figlia della crisi economico-finanziaria iniziata con il fallimento della Banca d’affari Lehman Bros. Ma è, su un piano interno, la conseguenza diretta delle mancate riforme (colpa, si badi, non solo portata dalla classe politica greca). L’introduzione dell’euro, infatti, avrebbe proprio dovuto stimolare le singole economie dell’eurozona a procedere, per tempo, all’introduzione di quelle riforme necessaria per trarre il maggior vantaggio dal quadro di stabilità monetaria (e macroeconomica) garantita dalla moneta unica: a) l’introduzione di seri e non aggirabili vincoli di bilancio pubblico; b) la conseguente messa fuori corso di tutta quella congerie di progetti ed interventi fatti con la spesa pubblica, sussidi alle imprese, buoni per acquistare voti e fugace popolarità; c) un ridimensionamento del numero dei pubblici dipendenti e la scelta tra riduzioni dei loro stipendi ed aumenti di produttività; d) coerenti riforme dei sistemi previdenziali con l’adozione di sistemi contributivi puri; e) ampi progetti di liberalizzazione delle economie con riduzione degli oneri amministrativi e dei vincoli, limiti, contingentamenti delle nuove iniziative ed attività. Nei fatti, l’euro avrebbe dovuto operare come un buon succedaneo di quei sistemi a cambi fissi che tanto piacciono agli economisti di scuola liberale: uno tra tutti, Friedrich von Hayek, secondo il quale “il più forte argomento in favore dei regimi di cambi fissi è che essi costituiscono il praticamente insostituibile freno di cui necessitiamo per obbligare i politici, e le autorità monetarie, a mantenere la stabilità di una moneta […] consentendo ai politici di resistere alle costanti domande per credito facile, per maggiori spese in lavori pubblici e via discorrendo”. Pochi ricordano, oggi, come nel 2003 il primo allentamento dei parametri di Maastricht, richiesto dal governo tedesco e da quello francese, ed al quale l’Italia si accodò, avvenne sulla base di diverse ragioni. La Germania, malato d’Europa dopo la dolorosa unificazione tedesca (con la parità 1:1 del marco tedesto occidentale con quello orientale) aveva messo in cantiere un piano di riforme strutturali che aveva condotto ad un transitorio squilibrio dei conti pubblici. La Francia, e l’Italia erano indietro e fermi sul piano delle riforme, ma si accodarono per opportunismo politico. Passati dodici anni, e la peggior crisi mondiale dai tempi della Grande depressione, lo scenario, in realtà, non è molto diverso. Cosa succederà ora? L’impossibile vittoria del sì avrebbe consentito una apertura del tavolo delle trattative con le autorità europee. La vittoria rende – politicamente – assai più difficile un simile scenario, perché vorrebbe dire riconoscere che le regole autoimposte nell’area euro non valgono per tutti, con conseguenze destabilizzanti non ponderabili. Il voto greco era un voto solo politico, nel senso della politica demagogica. Altro che trionfo della vecchia polis ateniese, come solo i corrivi intellettuali italiani possono romanticamente sostenere, malati di appellismo cronico. Ed il significato politico è un duro colpo per il progetto europeo.

di Andrea Bitetto