Scatti futuristici a Villa dei Papiri, le “Latenze” di Gargiulo al Man

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Raccontare in poche righe il lavoro di Gianluigi Gargiulo non si può. Non solo perché si andrebbe a tagliar fuori parte della sua straordinaria produzione fotografica, ma perché, così facendo, si andrebbero a decurtare porzioni importanti della storia di Napoli. E’ dagli inizi degli anni ’70, infatti, che il fotografo documenta e cataloga frammenti della sua città: i bambini di S. Erasmo ai Granai o di Rione Traiano, scalzi, scarmigliati e sorridenti, o ancora i pazienti dell’Ospedale di Santa Maria della Pace, doloranti nei lettini in ferro, e poi le contestazioni studentesche, i contrabbandieri di sigarette, prostitute e femminielli, sciuscià, acquaioli e venditori di ogni tipo. L’archivio fotografico di Gargiulo è come un libro, ad ogni pagina, ad ogni foto, si accede all’immagine schietta di una Napoli che sembra scomparsa, ma che in realtà, in qualche strano e inspiegabile modo, continua a sopravvivere.

255 002 eIn seguito al terremoto dell’ottanta, Gianluigi si ferma. Si dedica al suo lavoro, l’ingegneria, e riprende a fotografare dopo quindici anni. Grazie all’arrivo del computer e del digitale, si aprono a lui sterminate possibilità di sperimentazione. Nel 2014, ad esempio, il progetto “La Mostra delle Mostre”, viene presentato ed esposto al Pan. Gargiulo immortala centinaia di artisti in occasione dei loro vernissage e, pian piano, introduce modifiche interessanti all’interno delle foto. Montaggi che mutano, in ordine di grandezza e prospettiva, il rapporto tra soggetto (l’artista) e l’oggetto (l’opera d’arte). Si compie, invece, tra il 2012 e il 2013, “Anime Salve”, progetto teso a raccontare il ciclo vitale attraverso l’utilizzo di manichini, un ossimoro dai toni incredibilmente emozionali.

È invece oggi ospitata presso il Museo Archeologico Nazionale la mostra “Latenze”, che mette il luce l’approfondito studio che il fotografo sta portando avanti sul movimento, da Muybridge alla magia del fantascopio, passando per il futurismo. L’esposizione si compone di una serie di ritratti delle statue della Villa dei Papiri. In questo caso il soggetto/oggetto è fermo: a muoversi è il fotografo. Il tempo di scatto lungo permette di leggere lungo l’immagine il percorso che il corpo macchina ha compiuto, attraverso una scia luminosa serpeggiante. Le statue prendono vita, assumono un’identità che amplifica le possibilità della plasticità originaria, mentre le ombre in scala di grigio moltiplicano i profili e li riassumono in una sintesi drammatica, parossistica. In realtà, il risultato è sconosciuto allo stesso autore nell’atto del

016 anime senza Gianluigi Gargiulo

 fotografare. Si compie in questo progetto l’epifania di una creazione che accarezza l’accidente. In effetti la macchina fotografica ha dei punti deboli e la capacità di un buon fotografo sta nello sfruttare quelli, piuttosto che le potenzialità tecniche evidenti. Quando Michelangelo affermava che la statua era già nel pezzo di marmo intendeva dire che non bastava dare qualche martellata, ma che c’è bisogno di meditare sulle possibilità intrinseche della materia. Ed è per questo che, quasi come per il principio dei vasi comunicanti, certe volte più si lascia fare a l caos più c’e qualcosa da conquistare. Gargiulo lo sa e mescola sapientemente al caos un’attenta ricerca, all’accidente creativo la scrupolosità della tecnica.

Chiediamo, allora, all’artista cos’è l’arte per Gianluigi Gargiulo?
Quale descrizione di arte vorrei fare mia quella di Alda Merini : “L’arte è un mistero che ha ali di farfalla“.