La strategia globale della Brexit

 

In un recente documento dell’Autorità Europea per la Politica Estera e la Sicurezza, uscito agli inizi di questo mese di Giugno, si fa il punto delle criticità estere e di intelligence del sistema EU.

Intanto, Bruxelles deve continuare a sostenere le riforme nel Balcani occidentali, dice il documento, che sono trasformazioni sia politiche che economiche.

Sembra che le “riforme”, oggi, siano tutte mirate alla diminuzione dei salari e alla compressione del welfare, in un impossibile imitazione delle economie asiatiche che funzionano, anche in questo caso, con logiche diversissime dalle nostre.

Ma torniamo al documento EU: si sostiene, quindi, che le nazioni che compongono quell’area devono continuare ad essere aree di sostituzione produttiva delle industrie EU, con un diminuito costo del lavoro e una maggiore autonomia fiscale e organizzativa degli imprenditori.

Non si capisce bene come si possano mantenere, quegli Stati, in assenza di entrate fiscali tali da giustificare la spesa pubblica.

Altro elemento del testo di Bruxelles è il rafforzamento dell’asse atlantico con gli USA; ma è proprio l’America a abbandonare l’Europa, se non per la parte al confine con la Federazione Russa, dove le FF.AA. statunitensi (e non solo NATO) sono a convergere con una struttura militare ad hoc e una nuova rete di sensori e siti missilistici, sia fissi che mobili, tra la Polonia e la Romania fino al confine turco.

L’UE si propone qui, come nella sua poco fantasiosa cartamoneta, come un “ponte” per la risoluzione delle tensioni tra Medio Oriente, Africa settentrionale e Golfo Persico, ma senza armi, senza leverage economico credibile, senza alleati stabili e con una politica tesa ancora al vecchio peacekeeping.

Se, quindi, vince la Brexit il Premier David Cameron, erede di quella Thatcher che prima fece entrare la Gran Bretagna nella EU nel 1973 e poi gestì freddamente la presenza britannica a Bruxelles, non avrà alcun interesse a implementare, o perfino discutere la nuova Strategia Globale dell’Unione.

Ma se la Brexit non vincesse, sarebbe in gran parte lo stesso.

O Cameron si avvicinerà ancor di più agli interessi degli USA, oppure giocherà con le sue sole forze tra le diverse potenze regionali nelle aree che abbiamo citato.

Se invece vincesse il Bremain, anche in questo caso le autorità britanniche non avrebbero nessun motivo per premere l’acceleratore nella nuova Global Strategy europea.

Il fatto è che vi è un vecchio sistema che si sta trasformando e restringendo, quello euroatlantico, e un nuovo sistema in costruzione, l’Eurasia a guida russo-cinese, che arriverà al Mediterraneo con la sua Belt and Road Initiative e l’ integrazione delle economie nel vasto mondo asiatico in espansione economica e strategica, promossa integralmente da Pechino.

L’EU non ha ancora scelto, non ha trattato queste questioni con i rispettivi poli di attrazione, ha ancora una visione che Marx definirebbe “economicista” e crede che basti un PIL disarmato e privo di prospettive strategiche per rimanere a galla nel futuro mondo multipolare.

In una ipotesi di soft Brexit, la Gran Bretagna potrebbe collaborare con il nucleo dell’Unione Europea per una politica di sicurezza comune, ma è estremamente improbabile che l’UE possa implementare la sua politica estera globale senza il supporto di un potere militare, diplomatico, di intelligence come quello di Sua Maestà britannica.

Rimarrebbe aperta la possibilità di una collaborazione antiterrorismo con il resto dell’Europa sul piano della sicurezza collettiva, ma certamente cadrebbe il progetto di un Esercito Europeo, come quello che si afferma da più parti.

Tante debolezze non fanno una forza, e non si capisce bene quali potrebbero essere gli “obiettivi esterni” e la strategia unificata del nuovo Joint European Army.

Senzaalcun riferimento alla Brexit, la Gran Bretagna ha programmato investimenti per 178 miliardi di sterline in dieci anni, secondo quanto affermato nella Strategic Defence and Security Review del 2015.

Londra vuole diventare, il più rapidamente possibile, una “pocket superpower” da sola.

La Gran Bretagna, invece che su una Common Security and Defence Policy europea, che non ha mai gradito, punta ancora al vasto campo della NATO e a una collaborazione bilaterale rafforzata con gli Stati dell’Unione che ci stanno.

La Francia è certamente una candidata alla collaborazione stabile con Londra, ma Parigi teorizza ufficialmente la partecipazione delle FF.AA. tedesche e questo la Gran Bretagna non lo desidera affatto.

Siamo ancora ai tempi di Lord Kitchener: l’Inghilterra vuole una Europa unificata in quanto area di tenuta delle invasioni (commerciali, migratorie, finanziarie) da Est e da Sud, ma non pensa ad una UE fortemente unificata, che diverrebbe inevitabilmente germanocentrica.

Ma qual’è oggi il peso dell’UE nel quadro NATO? Tutt’altro che trascurabile.

Dal 2003 risulta un forte contributo delle truppe dei Paesi europei nel meccanismo Very High Readiness Joint Task Force (VJTF) dell’Alleanza Atlantica, una brigata che è destinata a muoversi con estrema rapidità verso i confini orientali della NATO.

E’ chiaramente sottoposta alla regola dell’Art.5 del Trattato dell’Atlantico del Nord.

L’Europa è presente nella VJTF soprattutto per i suoi impegni economici in Ucraina, successivi alla firma del Deep and Comprehensive Free Trade Agreement con Kiev.

Il DCFTA tra la UE e l’Ucraina prevede, prima di tutto, di rimuovere ogni tassa sulle importazioni ed esportazioni.

Anche sul piano agricolo, vi sono beni duty free: cereali, carni suine e bovine, pollame e orticoltura.

Sono liberalizzati anche gli scambi manifatturieri, soprattutto per i tessuti e le aziende di macchine utensili.

Naturalmente, e qui è il nodo centrale, è prevista una forte riduzione dei duties anche per i prodotti petroliferi.

Se, quindi, la strategia globale EU si muove nella direzione di definire varie singole strategies per ogni punto di crisi (Sahel, Libia, Conro d’Africa, etc.) la Gran Bretagna può partecipare certamente al quadro NATO di queste operazioni, ma non ha nessun interesse a farne pienamente parte in quota europea.

Londra non sarà mai, né potrebbe essere altrimenti, una sorta di Australia o di Nuova Zelanda, sul piano militare e strategico.

Una potenza “a chiamata”, come certe collaboratrici familiari.

La Gran Bretagna ha il potenziale, le idee e le armi per divenire, da sola, il power broker in tutte le aree che la interessano direttamente: il Mare del Nord, l’Oceano Indiano, il Grande Medio Oriente.

Londra, fin dalla sua entrata nella UE nel 1973, ha sempre considerato la sua politica diplomatica nell’Unione come un sottoinsieme della sua più generale azione di politica estera.

Da Churchill in poi, l’Europa è stata sono uno dei componenti della presenza britannica nel mondo.

Il suo “secondo cerchio”, mai il primo, che è la special relationship con le sue vecchie colonie ribelli, gli USA.

E’ da intendersi in questo senso perfino la battuta “abbiamo ammazzato il maiale sbagliato” quando Sir Winston approntò, immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il segretissimo piano Unthinkable che ipotizzava l’invasione britannica dell’URSS per distruggere, nel suo momento di maggiore debolezza, il bolscevismo.

La strategia globale di Londra verso l’UE è quindi sempre stata: la stabilizzazione dell’Unione come un’area di libero scambio, fortemente deregolamentata, la sua rapida espansione ed il rifiuto, spesso chiaro e netto, di ogni tentativo di trasformare l’Unione Europea in una entità politica o, peggio, negli “Stati Uniti d’Europa”.

Naturalmente, Londra ha sempre teso a equiparare il suo ruolo solitario in Europa al tandem franco-tedesco come leader della UE, ed ha sempre cercato di delineare le linee strategiche dell’Unione insieme o, talvolta, contro, l’asse Parigi-Berlino.

La Gran Bretagna si è quindi sempre interessata in modo particolare alla Common Foreign and Security Policy europea, alla Common Security and Defence Policy, e a tutte le relazioni esterne della UE, spesso intraprese, tramite i veicoli dell’Unione, da singoli Stati componenti.

Da qui, l’interesse primario britannico per l’EU External Action Service.

Ed è dai 32 diversi documenti preparati dal governo britannico durante la Review of the Balance of Competences nell’arco 2010-2015 che abbiamo la sola base di analisi dei costs and benefits della Brexit o della permanenza di Londra nella UE.

In termini di politica estera, è forte l’interesse della Gran Bretagna a lavorare attraverso i canali europei. Per i suoi fini.

Londra, peraltro, è stata riluttante perfino a accettare le regole del Fiscal Stability Treaty europeo del Dicembre 2011.

Da quel momento, i media e i governi britannici sostengono in parallelo l’UE e il Commonwealth come i pilastri di una nuova politica estera e di sicurezza britannica che non si limita al solo quadro europeistico.

Anche i viaggi all’estero che Cameron affronta nella prima parte del suo first term sono mirati a dare due segnali: che la Gran Bretagna non vive solo dentro l’Unione Europea, che non rappresenta l’unico orizzonte della sua politica estera; e che Londra è più adatta di altre aree geopolitiche a stare al ritmo con i tempi: l’espansione dell’Asia, i nuovi poli di sviluppo in America Latina, la stessa crescita di rilievo della Federazione Russa.

Inizia così la formazione di un nuovo National Security Council che prepara, a scadenze prefissate, la National Security Strategy.

Ogni cinque anni, viene anche predisposta la Strategic Defence and Security Strategy.

La NSS e la SDSS del 2010 raccomandano un “approccio decentrato” alla UE, il che accade anche nei testi del 2015.

La linea dei sue documenti è quella di un ruolo UE di supporto minore alle scelte strategiche della Gran Bretagna.

In ogni caso, il ruolo della Gran Bretagna nella UE rimarrà stabile, sia con la Brexit che con il Bremain, e rimarranno identiche le sfide internazionali che Londra ha deciso di giocare nei prossimi anni.

Giancarlo Elia Valori