Diritto al ben-essere

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in foto Konrad Lorenz

di Giuseppe Tranchese

Le convinzioni sulla natura degli animali influenzano il modo in cui li trattiamo. La rappresentazione che ci facciamo di loro, le condizioni in cui li studiamo, il grado di intelligenza ed emotività che presumiamo abbiano, esercitano una profonda influenza su ciò che consideriamo un trattamento ammissibile o non lecito nei loro confronti.
Le riflessioni che seguiranno non vogliono essere un giudizio o una condanna (visto che ognuno di noi è deficitario ed insolvente verso il rispetto dell’unità in Natura), ma un confronto teso a prendere coscienza del fatto che, se vorremo rendere questo mondo un posto in cui tutti gli esseri possano provare a vivere in armonia, dovremo acquisire l’assunto che noi siamo una specie molto particolare ma non migliore rispetto alle altre. Quella superiorità che promuoviamo dovrebbe concretizzarsi nel rispetto, nella compassione e nell’amore, sostituendosi alla crudeltà ed alla mancanza di equilibrio che ci caratterizza nel considerare la vita degli altri viventi come altro da noi.
Sono tanti i contesti e gli interrogativi riguardanti il problema dell’ “utilizzo” (termine già di per sé viziato in partenza) degli animali, molti dei quali accomunati dallo stato di sofferenza a cui li destiniamo. Basti pensare alla caccia ed alla pesca sportive che, se si escludono le tradizioni culturali sul modo di procurarsi il cibo, non sarebbero necessarie e finalizzate alla sopravvivenza alimentare dell’uomo. Altri punti critici di liceità sono rappresentati dagli zoo, dai parchi tematici e dagli acquari dove, molto spesso, gli animali sono trattati in maniera inadeguata, innaturale, impoverita. Soprattutto in quelle strutture dove mancano recinti naturalistici ed arricchimenti ambientali, si enfatizzano negli animali una serie di rituali stereotipati che esitano, spesso, in atteggiamenti ossessivo compulsivi ed automutilazioni.
Didattica e conservazione sono le due motivazioni cui comunemente si ricorre per giustificare l’esistenza degli zoo, tuttavia, molti studi osservazionali comportamentali hanno evidenziato che l’attività primaria umana è ludica più che didattica. Inoltre i parchi zoologici, così come strutturati, anziché incrementare le biodiversità e la conservazione animale, spesso, creano le condizioni per innalzare fino al 70% sia le morti dei piccoli animali orfani tenuti in cattività, sia la riduzione della capacità riproduttiva degli adulti.
C’è poi da considerare l’utilizzo degli animali a scopo di ricerca e produttività nei più svariati campi: dai laboratori per la sperimentazione dei farmaci e dei vaccini, a quelli delle industrie cosmetiche e del mercato del pellame, laddove, molti attivisti hanno documentato scene di detenzioni inadeguate e di manipolazioni distaccatamente cruente.
Non ultimo e non meno importante è l’utilizzo degli animali finalizzato alla produzione di cibo. Gli allevamenti intensivi sono, realmente, un punto chiave se si pensa alle vacche da latte tenute in riproduzione: obbligate ad avere un vitello l’anno, subito allontanato dopo la nascita (con risvolti nefasti sia fisici sia “psicologici”) per consentire il mantenimento di una continua e costante produzione di latte. Condizioni anche peggiori sono riservate al pollame confinato in gabbie anguste ed asettiche; in molti casi viene rimosso loro il becco per ridurre le ferite procurabili, per stress o per cannibalismo stress indotto, ai compagni di gabbia. Sorti non migliori sono riservate anche agli allevamenti intensivi di suini ed ovicaprini.
La maggior parte delle persone assume posizioni moderate sull’uso che gli esseri umani fanno degli altri animali, ed ammette l’utilizzo di alcuni animali ma non di altri, innescando un meccanismo di “specismo” che non segue una logica di coerenza e, soprattutto, non si fonda su principi di etica della natura ma sui crediti che abbiamo attribuito, stampandoli come dei cliché nell’immaginario collettivo, ad alcuni animali rispetto ad altri, nonché all’utilità che può derivare a noi dal loro sfruttamento (anche se parziale).
L’etica può arricchire la nostra visione degli altri animali sia quando li consideriamo nei loro mondi, sia quando li proiettiamo nei nostri, e può aiutarci a comprendere che le variazioni fenotipiche (visto che i genomi non sono sempre così distanti) tra gli animali sono parimenti degne di rispetto, ammirazione e considerazione.
La separazione tra noi e loro si presenta come una falsa dicotomia, il cui risultato è un distanziamento che non arricchisce, bensì erode le relazioni che possono svilupparsi nell’ambito della vita biologica nel suo complesso.
Si dovrebbe provare a superare anche quella che, a mio avviso, è ancora la limitante ed apparentemente garantista “teoria del benessere animale”, secondo la quale è giusto utilizzare gli animali per perseguire scopi umani (“utilitarismo”) purché essi siano liberi dal dolore fisico prolungato o intenso, dalla fame e dalle malattie. Ma come potremmo stabilire una scala di dolore fisico più o meno sopportabile o più o meno dignitosa? Come si può comprendere quale sia la soglia di sofferenza, anche psicologica (come l’allontanamento forzato di un proprio figlio), che un animale sia in grado di sostenere? Secondo quali evidenze ci è lecito non attribuire anche agli animali una qualche forma di coscienza e di emozioni, se a malapena ci fermiamo a riflettere sulle nostre?
La teoria del benessere dovrebbe essere integrata e superata dalla teoria dei diritti degli animali che comprenda non solo il diritto alla vita, alla salvaguardia della libertà individuale ed alla proibizione della tortura, ma anche il diritto a non essere considerati proprietà o “cose” di cui abusare o da dominare. Piuttosto, dovremmo affermare e tutelare il loro diritto di organismi viventi, di soggetti di una vita, degni di compassione, rispetto, amicizia e sostegno.
Dovremmo ben comprendere che in assenza di animali e con un incremento sempre più massivo della sola popolazione umana, vivremmo in un ecosistema privato di biodiversità, povero di stimoli e di incremento della complessità, dove le azioni dettate dai profitti di ogni genere soffocheranno i sentimenti e le virtù più nobili, oltre a poter determinare la nostra stessa estinzione.
In zooantropologia si definiscono gli animali “pazienti morali” e gli esseri umani “agenti morali”: in quanto agenti morali dobbiamo essere consapevoli e responsabili del nostro comportamento e, dunque, spetta a noi l’azione di recupero e salvaguardia della sana dimensione uomo-animale.