Il Complice. Capitolo 3

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Pubblichiamo il  terzo capitolo de “Il Complice” di Procolo Ascolese, opera vincitrice del “Concorso Letterario Autore di te stesso – Premio Nazionale Campi Flegrei nella categoria editi”.   
Avvocato cassazionista, (il suo studio legale presta attività di assistenza e consulenza in materia penale), giudice onorario del tribunale penale, Procolo Ascolese si è occupato di numerosi processi penali ed è autore di innumerevoli pubblicazioni tra le quali ricordiamo: “I limiti dell’assunto accusatorio nell’applicazione della legge penale” (Aracne, 2014); “Dentro la giustizia. Breve viaggio nelle dinamiche del processo penale, dal delitto di Avetrana al caso ThyssenKrupp” (Il Papavero, 2021); “L’araba infelice nazifascista. Prunajo al Passo dell’Aprica” (Franco Mauro Editore, 2021).

in foto Procolo Ascolese

IL COMPLICE
di Procolo Ascolese

Terzo episodio 

Se posto in libertà, secondo i giudici, avrei potuto inquinare la prova della mia responsabilità, almeno fino a quando i carabinieri non avessero localizzato il luogo esatto nel quale la bambina era tenuta in sequestro. Ero costernato, annichilito. Un senso di angoscia si sviluppava insieme alla consapevolezza di essere finito in un baratro di pura follia. E sentivo la speranza vacillare, affievolirsi sempre di più. Mi lasciai prendere dal panico, poi dalla rassegnazione. Non mi restava che rimettermi all’altrui mercé, abdicare alla libertà, poiché a nulla era servito tacere, o professarmi innocente. Avevo la sensazione di naufragare, di annaspare in sella a una bicicletta sospesa nel vuoto, destinata, come tale, a rimanere inesorabilmente ferma. Perfino l’avvocato Rongaldi fu vinto dallo scoramento più assoluto allorché il giudice per le indagini preliminari, nello sforzo di ritrovare la bambina scomparsa, arrivò a coniare il disarmante binomio giustizia – baratto, affermando che la mia libertà era divenuta appetibile… almeno quanto una mia confessione… Per non parlare poi dei media, che un malinteso principio di libertà di cronaca autorizzava a darmi in pasto all’opinione pubblica… Dopo sei mesi fui scarcerato, ma solo grazie alla decorrenza dei termini di durata massima della custodia cautelare. Al susseguirsi delle udienze, quindi, presenziai a piede libero. Formulato farisaicamente il giuramento riservato ai testimoni, col suo sguardo sfuggente, la sua pelle giallognola, i suoi capelli corvini, il suo naso asimmetrico, il suo mento sporgente e ossuto, Giacomo De Lucias permise alla sua voce bassa ed esitante di confermare, nel corso di una vergognosa audizione, i contenuti della sua falsa denuncia. Ciò, naturalmente, anche grazie a una certa capacità di decifrare gli ammiccamenti del suo legale. Ai giudici del tribunale il mio difensore si permise di dire, quasi prometeicamente, che il De Lucias aveva loro propinato un mucchio di fandonie, chiedendo di disattendere la richiesta di condanna avanzata dal pubblico ministero in nome della giustizia.
Terminata la sua ridondante discussione, i giudici si ritirarono per decidere. Trascorsero molti, interminabili minuti, durante i quali tentavo di dominare la mia ansiogena attesa soffermandomi a riflettere su quanto potessero apparire pericolosamente evanescenti i confini che separano la verità apodittica del processo da quella vera, sulla mia innocenza, che rischiavo di vedere offuscata, letta in chiave accusatoria, come espressiva della naturale tendenza di ogni imputato a sostenere la propria estraneità ai fatti, vera o falsa che sia. Alimentata da questi grigi pensieri, si faceva più intollerabile quella situazione di stallo, che tentavo di contrastare percorrendo infinite volte, avanti e indietro, gli stessi due metri di pavimento nero all’interno dell’aula. I cui contorni, già appannati dalle immagini affastellate nella mia mente, sembravano dissolversi del tutto quando il pensiero ritornava agli albori di quella vicenda giudiziaria: il mio rapporto con Edvige. Che ora, stranamente, vedevo sotto una luce diversa, e verso la quale ormai il calvario giudiziario e la sua improvvisa indifferenza avevano finito col sopire il trasporto iniziale. Un po’ come succede quando la brezza dirada il fumo dopo una violenta esplosione… Il tribunale, purtroppo, recepì le argomentazioni del pubblico ministero e, sordo alla mia viva protesta d’innocenza, si appagò di una sola testimonianza, quella pur imprecisa del padre della bambina, suffragandola con la telefonata della minore scomparsa, di cui era rimasta traccia sul cellulare del genitore.
Nell’aula regnava il silenzio più assoluto quando il tribunale vi rientrò. Il pubblico ministero, l’avvocato Rongaldi, le altre toghe nere presenti in aula, il pubblico, tutti eravamo in piedi mentre il presidente del collegio mi attribuiva, ieraticamente, la patente di criminale, condannandomi alla pena di quattro anni di reclusione. Il mio difensore si rabbuiò.
Poi tentò di confortarmi. Mi diceva che la sentenza era suscettibile di riforma e che, impugnandola, avremmo potuto comunque neutralizzare la pesante condanna, almeno fino alla decisione definitiva della corte. Piuttosto che proporre appello, avrei preferito denunciare lo sprezzante atteggiamento di uno dei due giudici seduti accanto al presidente, quello che, quasi a voler prendere le distanze dagli argomenti della difesa, aveva tenuto gli occhi chiusi durante la discussione del mio legale… Ma, si sa, si ascolta con le orecchie… Una settimana dopo, il De Lucias informò l’autorità giudiziaria di avere ritrovato la piccola Milena abbandonata per strada… Con i segni di una sofferenza psicologica definita dal suo medico di fiducia così grave, da consigliare la rinuncia a qualsiasi forma di colloquio che potesse rievocarla… Decisi in ogni caso di impugnare la sentenza di primo grado, la cui motivazione mutuava sostanzialmente la requisitoria del pubblico ministero, quantomeno per tentare di mitigare il rigore della pena inflitta. E l’udienza per la celebrazione del secondo grado fu fissata nel giro di pochi mesi. E proprio oggi, reverendo, sono a ridosso della decisione finale. Con la stessa cognizione della corte di appello, infatti, non ci saranno altri giudici: semmai la prima sentenza dovesse essere confermata, quindi, dovrò rassegnarmi all’idea di trascorrere dietro le sbarre i prossimi tre anni e mezzo di pena residua».
Meditabondo, il frate si protese lentamente verso Alberto e, dandogli una pacca incoraggiante sulla spalla sinistra, disse: «Non siamo chiamati a credere semplicemente che Dio esiste. Ma, quel che più conta, che Dio ci ama…».
Sorridendo, ma con un po’ di amarezza, Alberto guardò fuori dal finestrino e, mentre un gruppo sparuto di persone scorreva lentamente sotto i suoi occhi, in attesa che il treno si fermasse del tutto, mormorò: «Aversa, fra non molto…».
«Aversa!», esclamò don Eligio, trasalendo. «Devo salutarti, sono arrivato!». Poi, nonostante le gambe aggranchite dall’inerzia e il traballio del treno in frenata, si allontanò repentinamente. Così repentinamente che dimenticò la ventiquattrore sul sedile. Riuscì comunque a discendere, ancorché pochi istanti prima che il treno ripartisse.
Il rapido, brusco allontanamento di quel frate gettò Alberto in una condizione di indicibile disagio interiore, facendolo improvvisamente ripiombare nella ineluttabile realtà di quel viaggio, che ormai volgeva al termine. Fu come se intanto quella laconica presenza lo avesse sorretto, stimolato, quasi rinfrancato. Come se anche nel silenzio dell’ascolto quell’uomo fosse riuscito a trasudare saggezza, a incarnare l’equilibrio che mancava ad Alberto, a fagocitarne il marasma interiore.
Di quel cappuccino, d’altronde, era rimasta, visibile all’interno dello scompartimento, una traccia: la ventiquattrore nera, appoggiata e, poi, dimenticata proprio nello sforzo di ascoltare la storia personale di Alberto, con l’atteggiamento quasi empatico che gli derivava da una profonda sensibilità. «Che cosa faccio ora? A chi potrei consegnare questa borsa?», si domandò. Poi, sia pure a malincuore, la aprì, nel tentativo di attingervi qualcosa, un nome, un indirizzo, un numero telefonico, con l’intento di farla giungere al frate. E la prima cosa che gli capitò fra le mani rovistando al suo interno fu una pietra cruciforme di colore avorio, venata di rosa, annessa a una collanina d’oro. E allora strabuzzò gli occhi ravvisando in essa un oggetto familiare. E sul suo volto affiorò un’espressione di grande sorpresa: «Non ci credo», disse dentro di sé, «non è possibile… Eppure è proprio lei…». E allora gli tornò alla mente il mare, costellato di una miriade di riflessi solari, e la battigia, dove qualche anno prima, giocando con un rastrellino di plastica, la piccola Milena aveva rinvenuto proprio quella pietra cruciforme; e il sorriso, pieno di entusiasmo, con il quale la bambina aveva mostrato a tutti quella scoperta, che avrebbe dovuto arricchire una variegata collezione di pietre. La presenza di quell’oggetto nella ventiquattrore del frate rappresentava un vero e proprio mistero.
Così, attanagliato da una crescente e irrefrenabile curiosità, Alberto prese a svuotarla tutta spasmodicamente, per esaminarne il contenuto: un libro contenente i vangeli canonici; la bibbia; una diecina di fogli, su ciascuno dei quali era raffigurato un disegno, con l’indicazione del relativo comandamento; una corona del rosario; un assegno dell’importo di 15.000 euro, emesso da un tale Alessandro Fiore a favore di Eligio Clementi; una brochure rettangolare, riproducente l’immagine di una chiesa, con la scritta Parrocchia Convento San Gennaro alla Solfatara Cappuccini, via San Gennaro, Pozzuoli – Napoli; una targhetta recante il nome Eligio Clementi.
Ma lo distolse il rallentamento, ancorché graduale, del convoglio ferroviario. Si alzò dal sedile e si sporse dal finestrino semiaperto. Il suo sguardo si proiettò subito verso la motrice che fendeva l’aria, dove già poteva intravedersi la stazione di Napoli centrale. Allora si ritrasse e, ad eccezione della brochure, ripose rapidamente nella ventiquattrore aperta quanto dalla stessa aveva appena estratto, per poi richiuderla. Era deciso a rivedere quel frate. Gli avrebbe chiesto se, dove e quando avesse avuto modo di incontrare Milena; come mai si trovasse in possesso di un oggetto appartenente alla bambina… Impazientemente, quindi, con il manico della ventiquattrore nella mano destra e la brochure nell’altra, attese l’arresto del treno. Poi, disceso dalla carrozza, si diresse speditamente verso l’uscita della stazione.

3. Continua
(il quarto capitolo sarà in rete lunedì 8° aprile, dalle ore 8)