Il Complice. Capitolo 8

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Pubblichiamo l’ottavo capitolo de “Il Complice” di Procolo Ascolese, opera vincitrice del “Concorso Letterario Autore di te stesso – Premio Nazionale Campi Flegrei nella categoria editi”.   
Avvocato cassazionista, (il suo studio legale presta attività di assistenza e consulenza in materia penale), giudice onorario del tribunale penale, Procolo Ascolese si è occupato di numerosi processi penali ed è autore di innumerevoli pubblicazioni tra le quali ricordiamo: “I limiti dell’assunto accusatorio nell’applicazione della legge penale” (Aracne, 2014); “Dentro la giustizia. Breve viaggio nelle dinamiche del processo penale, dal delitto di Avetrana al caso ThyssenKrupp” (Il Papavero, 2021); “L’araba infelice nazifascista. Prunajo al Passo dell’Aprica” (Franco Mauro Editore, 2021).

in foto Procolo Ascolese

IL COMPLICE
di Procolo Ascolese

Ottavo episodio

Alberto si allontanò senza aspettare che l’elogio funebre terminasse. Prima di rincasare, acquistò e consumò per strada una trancetta di pizza. “A quest’ora non posso certo presentarmi dai carabinieri”, pensò sbirciando l’orologio. “È troppo tardi. Vorrà dire che ci andrò nel pomeriggio”.
«Massimiliano Massone», furono le prime parole scandite dal telegiornale delle 14.30 appena Alberto accese il televisore. «Potrebbe essere questo il nome dell’assassino di don Eligio Clementi. Si tratta della persona raffigurata nella carta d’identità del primo indiziato. Questa mattina i carabinieri lo hanno arrestato prima che uscisse di casa, con l’accusa di omicidio volontario. Messo alle strette, l’uomo ha poi confessato. Ma il pubblico ministero ritiene che siano necessari ulteriori approfondimenti investigativi. Massimiliano Massone ha spiegato di avere agito di propria iniziativa, nel timore di essere incriminato per una serie di gravi rapine. Di questi reati, in particolare, il frate cappuccino sarebbe stato informato da un complice del Massone, all’interno del confessionale. È proprio l’indicazione del complice scomodo, però, ad alimentare i dubbi in merito alle dichiarazioni autoaccusatorie del Massone. Quest’ultimo, infatti, ha riferito che, prima di uccidere don Eligio Clementi, avrebbe avuto cura di eliminare lo stesso complice, per spegnere alla radice la possibilità che delle numerose rapine il connivente potesse informare anche l’autorità giudiziaria. Non può escludersi, a questo punto, che il riferimento a un complice scomparso possa rispondere al deliberato obiettivo di impedire l’acquisizione di un potenziale riscontro».
Alle 16.00, Alberto uscì di casa. «Mi scusi!», esclamò rivolgendosi a una giovane passante, «mi saprebbe indicare la stazione dei carabinieri?».
«Certo! Deve percorrere questa strada in discesa per circa ottocento metri. A un certo punto, si troverà la stazione dei carabinieri sulla sua sinistra».
«Grazie!».
Alberto si incamminò nella direzione indicata dalla donna, con in mano la ventiquattrore di don Eligio. Giunto a destinazione, citofonò al cancello d’ingresso della caserma, che si fece aprire.
Entrato nell’edificio, fu avvicinato da un carabiniere, che gli chiese come si chiamasse. Poi disse: «Senta, signor Salvati, se è venuto per sporgere querela, deve ripassare fra mezz’ora».
Appena, però, Alberto gli mostrò la ventiquattrore di cui era in possesso, asserendo che apparteneva a don Eligio Clementi, il carabiniere cambiò atteggiamento e, senza esitazione, gli intimò di seguirlo, procedendo con un incedere serrato e risuonante.
Mentre si avvicinavano alla stanza del comandante, poi, lo invitò ad attendere fuori, prima di introdurvisi repentinamente, chiudendosi la porta alle spalle.
Dopo qualche minuto, Alberto fu chiamato. «Venga, Salvati, venga!», esclamava, seduto dietro l’unica scrivania presente nella stanza, il comandante, il quale, porgendogli la mano, lo invitò a sedersi. Poi gli domandò fulmineamente: «Senta, dove ha trovato codesta borsa!».
«Vede, maresciallo, fino al giorno in cui don Eligio è stato ammazzato, io non lo conoscevo, neanche di nome. E non potevo conoscerlo, soprattutto perché abito a Roma. Giovedì mattina, però, ho preso l’intercity per Napoli. A un certo punto, nello scompartimento in cui mi trovavo, è entrato quel frate».
«Dopo quanto tempo?».
«Non le so dire di preciso. Comunque, è entrato nel mio scompartimento mentre il treno era fermo alla stazione di Formia».
«Nello scompartimento c’era qualcun altro?».
«No, nessun altro».
«Neanche dopo l’arrivo del frate?».
«No. Né prima del suo arrivo, né dopo il suo arrivo, né dopo la sua discesa dal treno».
«Perché dice dopo la sua discesa dal treno?! Il frate non è sceso anche lui alla stazione di Napoli?».
«No, è sceso ad Aversa».
«Capisco. E come mai lei oggi è in possesso della sua borsa?».
«Semplicemente perché il frate, scendendo dal treno, se l’è dimenticata nello scompartimento».
«E lei perché, quando è arrivato a Napoli, ha tenuto la borsa con sé, anziché consegnarla subito alla polizia ferroviaria?».
«Perché avrei voluto consegnarla direttamente a quel frate».
«Senta, io mi auguro che lei mi stia dicendo tutta la verità. Sa bene che qui stiamo indagando sulla morte di don Eligio!».
«Ma è la verità! Glielo giuro, maresciallo, mi deve credere! Lei pensa che io starei qui con questa borsa se avessi qualcosa da nascondere?».
«E allora come mai gli voleva consegnare la borsa di persona se, come lei dice, non lo aveva mai visto prima di giovedì?».
«Adesso le spiego. Però le chiedo la cortesia di farmi parlare».
«Forza, mi dica ciò che mi deve dire!».
«Vede questo!», esclamò Alberto sventolando sotto gli occhi del maresciallo la notifica della corte di appello di Napoli, «questo è l’avviso di fissazione di un’udienza alla quale avrei dovuto partecipare giovedì mattina. Ecco il motivo per cui mi trovavo su quel treno. E diversamente da ora, maresciallo, in quel frangente ho avuto modo di parlare con quel frate senza alcun timore. Perché, diversamente da come sta facendo lei in questo momento, quel frate mi stava ad ascoltare senza fare insinuazioni!», sbottò Alberto.
«Si calmi, Salvati, si calmi. Io non sto insinuando proprio nulla. Mi deve solo spiegare: come mai ha tenuto con sé la borsa di don Eligio fino ad oggi!?».
«Deve sapere che a quel frate, durante il viaggio in treno, ho avuto modo di dire cose che solo a un amico avrei immaginato di poter raccontare. Non so perché sia successo. Forse perché avevo bisogno di sfogarmi, e quel frate mi metteva a mio agio e sembrava che volesse ascoltarmi con particolare attenzione e rispetto. In ogni caso, non mi sembrava giusto ricambiare quell’atteggiamento facendogli pervenire la ventiquattrore per interposta persona».
«E che cosa ha fatto, quindi, per consegnargliela personalmente?».
«Utilizzando le indicazioni rinvenute all’interno della ventiquattrore, mi sono diretto qui a Pozzuoli, dove, però, sono arrivato troppo tardi. Questo è tutto».
Alberto tacque, e il maresciallo continuava a fissarlo in silenzio. Si vedeva che stava pensando. Il nero dell’uniforme, su cui spiccava il rosso che circoscriveva i distintivi argentati e le mostrine rettangolari, si stagliava, sotto le luci al neon, contro le pareti bianche della stanza, nella cui parte superiore erano esposti encomi di varia dimensione e, alle spalle del pubblico ufficiale, una decina di calendari tipici dell’arma, disposti, in ordine cronologico, l’uno accanto all’altro.
«Appoggi la borsa sulla scrivania!», esclamò il maresciallo. «Costantino! Costantino!», poi gridò con voce grave e quasi sgangherata.
«Mi ha chiamato comandante?», rispose, entrando nella stanza, il carabiniere che aveva accompagnato Alberto. «Sì. Senti un po’, apri questa borsa!».
Il carabiniere obbedì. Il maresciallo allora svuotò la ventiquattrore, appoggiando sulla scrivania i vari oggetti estratti, che restò a osservare per qualche minuto.
«Il signor Salvati ci consegna questa borsa con tutto il resto», poi affermò rivolgendosi al militare di grado inferiore. «Preparami subito un verbale! Generalità del signore e descrizione di quanto ci viene consegnato!». E si alzò, per cedere il posto al carabiniere, e allontanarsi frettolosamente.
Ma, trascorsi venti minuti, si rifece vivo, mentre, seduto, Alberto stava sottoscrivendo il verbale che, qualche istante prima, era fuoriuscito dalla stampante collegata al computer in funzione sulla scrivania. «Ti sei fatto lasciare qualche recapito telefonico?», domandò il maresciallo.
«Sì comandante», rispose il carabiniere, «abbiamo il numero del telefonino».
«Bene. Mi raccomando», disse allora con tono deciso, rivolgendosi ad Alberto, «per i prossimi giorni, si renda disponibile, tenga il cellulare acceso!».
«D’accordo, maresciallo», replicò, alzandosi, Alberto, che lo salutò con una stretta di mano, «buona sera!».

8. Continua
(il nono capitolo sarà in rete lunedì 13 maggio, dalle ore 8)