L’arte di Andy Warhol alla Pietrasanta di Napoli: diario visivo del XX secolo

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di Fiorella Franchini

Ha trasformato in arte i simboli del XX secolo e ne è diventato parte integrante, icona di un tempo ancora vicino e già mitico. Andy Warhol non crea opere originali, bensì rende immortali oggetti comuni o volti di persone note, con brevi tratti o colori inverosimili che offrono una visione completamente nuova, benché si tratti di cose già viste. Reinventa le immagini dello Star System e del merchandising come le scatole Campbell’s Soup, il ritratto serigrafato di Marilyn, la pubblicità di Chanel N. 5, il volto di Mao. Questo mondo Pop con il quale il genio americano ha rivoluzionato il concetto di opera d’arte arriva a Napoli con una mostra prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia con Eugenio Falcioni, e occupa la Basilica della Pietrasanta nel cuore del centro storico. E’ un’invasione di colorazioni e figure che soltanto l’allestimento rigoroso e la spiritualità del luogo di culto riescono a contenere, conducendo il visitatore lungo un percorso sorprendente e, al tempo stesso, meticoloso. Fino al 23 febbraio 2020 sarà possibile ammirare oltre 200 opere in sette sezioni: Icone, Ritratti, Disegni, Warhol e l’Italia, Warhol e il brand, Musica, Polaroid e acetati che racchiudono ritratti di grandi nomi della moda quali Valentino, Versace, Armani, ma anche dello sport come Muhammad Alì e del cinema come Sylvester Stallone, Mick Jagger, Miguel Bosè, Billy Squier. Ampio spazio è dedicato al rapporto tra Warhol e il mondo della musica: insieme con alcune delle più memorabili cover progettate e realizzate come The Velvet Undreground & Nico, le chitarre e i dischi autografati. Si susseguono nelle austere sale lavori che raccontano la scena americana del ‘900, e quelli che rivelano il rapporto di Warhol con l’Italia, Sant’Apollinare, L’ultima cena, e con Napoli col suo Vesuvius.
Era il 1975 quando Andy Warhol, proveniente dalla Grande Mela, visitò per la prima volta la città su invito di Lucio Amelio. Si fermò tre giorni, cogliendo, forse, la “similitudine incredibile tra le due metropoli, due grandi caldaie, due ribollitori di energia pronti ad esplodere”. Probabilmente intuì il significato tragico della montagna, bellezza e dolore, così come comprese il valore simbolico della vita e della violenta morte di Marilyn Monroe, contribuendo a crearne un’icona che rimarrà nella leggenda. Spettacolare, lungo il percorso espositivo, è l’immersione nel giardino psichedelico tra giochi di luci, specchi e brani musicali, per sentirsi quasi parte di quell’atmosfera patinata ed enfatizzata che emana dalle sue creazioni. Proprio i suoi Flowers, comparsi per la prima volta nel 1964 a New York, durante un’esposizione della galleria di Leo Castelli, rielaborati e riprodotti in bene 900 copie, rimandano con la loro semplicità a una sorta di ”monito contro l’effimero e il superficiale”. Pubblicitario, pittore, scultore, regista e produttore portava le sue opere all’interno di un museo o di una mostra d’arte, come tra gli scaffali di un supermercato: “ l’arte doveva essere consumata come tutti gli altri prodotti commerciali di massa”, rappresentazione di una democrazia sociale diffusa. Attingendo al patrimonio popolare contemporaneo e trasformandolo in un mondo visionario, ambiguo e metaforico, Warhol concorse all’americanizzazione del gusto occidentale, iniziato fin dagli anni Trenta, esasperando tre elementi, l’immagine, l’oggetto iconico, lo slogan pubblicitario, che in molti ricollegano a “valori preculturali, a una retorica che agisce sull’inconscio più che sulla psiche”.
Sociologi e critici d’arte hanno proposto varie teorie sul simbolismo nascosto nei ritratti, sui motivi per cui Warhol avrebbe usato certi colori, sul messaggio che avrebbe cercato di trasmettere alla società. Sebbene lo stesso artista abbia affermato la mancanza di significati oscuri, dichiarando: “Se volete sapere tutto su Andy Warhol, guardate la superficie dei miei quadri, dei film e me in persona: io sono lì. Non c’è nient’altro nascosto”, è innegabile il suo presagio artistico e filosofico: l’avvento della società dell’immagine. La ripetizione della figura umana e, contemporaneamente, la personificazione dei prodotti, renderanno negli anni che verranno “oggetto di consumo di massa le persone attraverso i media di massa”, rappresenteranno quella perdita d’individualità, quella percezione mutevole, quella globalizzazione che hanno segnato il secolo appena trascorso. Una mostra, quella napoletana, che esalta questo suo ruolo di testimone consapevole, il diario visivo di un artista e di un uomo che dichiarava: “Non ho memoria. Ogni giorno è un nuovo giorno perché non ricordo quello prima. Ogni minuto è come se fosse il primo della mia vita” e, intanto, creava la rappresentazione di un’epoca.