Neurochirurgia funzionale, il bisturi per restituire al cervello la sua normalità

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in foto un intervento chirurgico generico

Alcuni degli eventi di un anno remoto come il 1886 segnano ancora il nostro presente. Come la prima automobile brevettata da Karl Benz, o la prima vendita di una bottiglia di Coca Cola, o ancora l’inaugurazione della Statua della Libertà. Contemporaneamente, senza molto clamore, a Londra un giovane chirurgo di ventinove anni, Victor Horsley, operava il cervello di un ragazzo epilettico riuscendo a guarirlo. Con lui in sala operatoria c’era John Hughlings Jackson, le cui osservazioni scientifiche sulle origini dell’epilessia avevano gettato le basi per questo intervento.
Dopo decenni di studi teorici, nei quali si era andata perfezionando l’idea di un cervello composto da specifiche aree destinate a svolgere determinati compiti, la Neurochirurgia Funzionale diventava così una pratica clinica. E non si sarebbe limitata alla sola epilessia.

“In breve – dice il professor Vincenzo Esposito, Responsabile dell’Unità di Neurochirurgia 2 e Direttore del Dipartimento di Neurochirurgia “Giampaolo Cantore” del Neuromed – la Neurochirurgia Funzionale si propone di modificare le funzioni neurologiche per ottenere un vantaggio per il paziente, agendo a livello cerebrale o in altre zone del sistema nervoso. La definizione può apparire vaga, ma questo è dovuto al fatto che nel tempo questa disciplina ha progressivamente esteso le sue applicazioni, occupandosi di svariati campi molto diversi tra loro. Accanto alla chirurgia dell’epilessia, nel corso degli anni la Neurochirurgia Funzionale è stata impiegata per vari disturbi del movimento, come la malattia di Parkinson, le distonie e la spasticità, e in alcune sindromi dolorose, quale ad esempio la nevralgia del trigemino”.

Una chirurgia completamente diversa, quindi.
“In realtà, il concetto di modificare positivamente la funzione neurologica si sta estendendo a tutti i campi della Neurochirurgia. Anche quando bisogna rimuovere un tumore, una malformazione vascolare od una alterazione qualsiasi cerebrale o spinale, la Neurochirurgia moderna si propone di preservare e, se possibile, migliorare le funzioni nervose alterate da queste lesioni”.

Con oltre 130 anni di storia alle spalle, la chirurgia dell’epilessia è la più antica espressione di questa disciplina. Quali sono le tecniche utilizzate, e quali i benefici per i pazienti?
“Ci sono due tipi di interventi. Il più efficace si propone di rimuovere la zona del cervello da cui hanno origine le crisi epilettiche. Esistono infatti delle forme di epilessia che nascono da un’area ben precisa, che presenta un’alterazione del suo normale funzionamento: il verificarsi di vere e proprie “tempeste” elettriche in queste zone provoca l’irritazione del cervello, che in molti casi i farmaci non riescono a fermare, generando le crisi epilettiche. In queste situazioni è fondamentale anzitutto studiare il paziente, per localizzare il focolaio e capire se può essere asportato senza provocare danni importanti. Una volta fatto questo si può procedere con la rimozione chirurgica della zona che provoca l’epilessia. I risultati di solito sono molto buoni: la guarigione può verificarsi in percentuali che arrivano all’80-90 per cento delle persone operate.
Vi sono inoltre gli interventi cosiddetti palliativi, che si propongono non di abolire completamente le crisi epilettiche, ma di modificarle in modo da renderle meno gravi o meno frequenti. Vengono impiegati nei casi in cui gli interventi di rimozione della zona epilettogena non possano essere praticati”.

È solo una questione di bisturi e mani salde del chirurgo?
“No. Questa attività viene svolta da gruppi multidisciplinari. Ad esempio, i neurologi hanno un compito importantissimo: studiano le crisi epilettiche del paziente e cercano di capire da dove partono e se le zone che ne sono responsabili possono essere rimosse senza danni. Molto importante è anche il ruolo dei Neuroradiologi, che esaminano l’anatomia del cervello con la Risonanza Magnetica alla ricerca di possibili alterazioni, e dei Neuropsicologi, che studiano le funzioni cerebrali, come ad esempio la memoria ed il linguaggio.

Le aree che non debbono essere assolutamente danneggiate vengono chiamate in gergo scientifico “aree eloquenti”. Come si fa a individuarle con precisione?
“È un problema che si presenta non solo nella chirurgia dell’epilessia, ma anche quando asportiamo tumori o altre lesioni cerebrali. Possiamo trovarci a dover operare vicino a zone molto importanti, ad esempio quelle che governano i movimenti o il linguaggio. Per poter intervenire in queste zone e conservarne le funzioni sono necessari degli studi approfonditi. Qui entrano in campo i neuropsicologi, che cercano di capire come funziona il cervello dello specifico paziente. Uno degli strumenti usati è la risonanza magnetica funzionale. Durante l’esame viene chiesto alla persona di svolgere alcune attività, ad esempio muovere gli arti, parlare o riconoscere oggetti. Mentre lo fa, le parti del cervello che presiedono a queste funzioni lavorano di più rispetto alle altre. Tramite tecniche particolari, vediamo queste zone “accendersi” alla risonanza magnetica, distinguendole dalle altre. Tutte queste informazioni vengono poi trasferite in sala operatoria. Ma non basta: durante l’intervento controlliamo continuamente queste funzioni stimolando il cervello, attraverso il cosiddetto monitoraggio neurofisiologico. In questo compito sono coinvolti altri professionisti essenziali, come i neurofisiologi ed i tecnici di neurofisiopatologia. In alcuni casi, il paziente viene operato da sveglio, per farlo parlare ed identificare con precisione, tramite stimolazione elettrica, le zone cerebrali che presiedono al linguaggio e controllare che durante l’asportazione chirurgica non vi siano sue alterazioni”.

Dalla fine degli anni ’90 è stata utilizzata la deep brain stimulation. Cos’è, e per quali tipi di patologie è indicata?
“L’applicazione più nota e diffusa della deep brain stimulation è la malattia di Parkinson. Il termine inglese vuol dire “stimolazione cerebrale profonda”: in pratica si inseriscono degli elettrodi all’interno del cervello. Questi elettrodi inviano impulsi elettrici che modificano il funzionamento di alcuni circuiti dell’attività neurologica, migliorando i disturbi tipici del Parkinson come il tremore, la postura o la lentezza nell’esecuzione dei movimenti. Ma questo è solo uno dei possibili impieghi: vi sono altre malattie che possono essere trattate con questa tecnica, come le cosiddette distonie (alterazioni congenite della postura del corpo e dei movimenti, ndr) o alcune sindromi dolorose. E, tornando all’epilessia, in determinati casi è possibile inserire elettrodi nel cervello che modifichino la propagazione delle scariche epilettiche.
Persino in alcune sindromi psichiatriche è possibile usare la stimolazione cerebrale profonda, ma non si arriva così semplicemente a proporre questo intervento. Le persone con questi disturbi debbono essere studiate in maniera molto accurata dagli psichiatri, che in casi molto selezionati possono suggerire l’intervento. Non sono quindi i neurochirurghi a dare l’indicazione chirurgica in questi casi.

Quale pensa sarà il futuro della Neurochirurgia funzionale?
“Ci sono studi sperimentali su alcune patologie degenerative, come ad esempio la malattia di Alzheimer. L’applicazione della neurochirurgia funzionale in questi campi può sembrare fantascienza, ma forse non siamo così lontani”.