Cambio di guardia al consolato napoletano del Bangladesh

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Parlando di potenze emergenti del cosiddetto Far Est, si erge il nome del Bangladesh che pur avendo situazioni sociali sul lavoro abbastanza arretrate, ha fatto progressi evidenti in questi ultimi anni, soprattutto nel settore dell’imprenditorialita’ tessile e dell’agroalimentare. Il Paese è il secondo più grande produttore di abiti pronti del mondo e il volume delle esportazioni verso la nostra Penisola è triplicato in dieci anni. Le associazioni segnalano stipendi miseri, straordinari obbligatori, strutture pericolanti, e gli affari con l’occidente non sono benvoluti da tutti come dimostrerebbe uno dei moventi della recente strage terroristica di Dacca, il cui bersaglio non era avulso dai colori della nostra bandiera, anzi. L’attentato di Dacca, dove sono state uccise 20 persone tra cui nove italiani e diversi imprenditori del tessile, ha riacceso le luci sul Bangladesh: un Paese stretto tra il boom del settore dell’abbigliamento e le tragedie del lavoro: è ancora viva la ferita del Rana Plaza, lo stabilimento tessile dove nel 2013 persero la vita 1.134 dipendenti, rimasti schiacciati dal crollo della struttura. “I marchi occidentali, committenti delle fabbriche tessili bengalesi, sono corresponsabili delle condizioni di sfruttamento in cui versano i dipendenti – spiega Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti – Gli operai lavorano 12-14 ore al giorno, fanno straordinari obbligatori e salari bassissimi: uno stipendio dignitoso equivale a 337 euro, mentre il salario minimo si ferma a 54 euro. E gli ambienti sono pericolosi: chi va a  lavorare in una fabbrica tessile, rischia di non tornare a casa”.
Il consolato del Bangladesh a Napoli , rappresenta una missione bilaterale in Italia e promuove gli interessi del Bangladesh in Italia. Il consolato svolge anche un ruolo importante nello sviluppo commerciale, negli affari culturali e stabilisce contatti con la stampa locale. Il consolato del Bangladesh a Napoli è stato guidato fino un mese fa  da Mr Ugo Pellegrino – Console Generale del Bangladesh in Italia : gli e’ succeduto la moglie Fiorella Breglia, suggellato in una grande festa a picco sul mare per il nuovo corso  del Consolato affidato  ad una imprenditrice , che ha ospitato 200 persone sulla terrazza della sua villa insieme al marito Ugo.
Un happening che ha visto protagonisti l’Ambasciatore Shahdat Housing,  il segretario del corpo consolare Mariano Bruno,  i colleghi consoli Francesca Giglio delle Filippine, Pierfrancesco Valentini del Regno Unito, Gianluca Eminente dell’ Islanda, Leonardo di Iorio della Costa d’Avorio.
Un Paese quindi  strategico per il tessile italiano, che vale quasi 1,2 miliardi all’anno per le nostre aziende;  un porto franco per i diritti umani, come segnalano le associazioni attive sul territorio, che raccontano di precarie condizioni in cui lavorano gli operai delle fabbriche, corrispondenti a noti  marchi italiani. Il Paese è il secondo più grande produttore di abiti pronti del mondo dopo la Cina: nel 2015 ha esportato vestiti per  oltre 25 miliardi di dollari, secondo Bangladesh manufactures and exporters association, e il settore ha dato lavoro a circa 5 milioni di persone. Dal Bangladesh, segnala Coldiretti, l’Italia ha importato nel 2015 prodotti tessili per 1,18 miliardi di euro: “Le importazioni di abiti sono aumentate del 248% (tre volte e mezzo) in valore negli ultimi dieci anni con un ulteriore incremento del 5% nel primo trimestre del 2016, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno”. Nel periodo gennaio-febbraio 2016, aggiunge l’agenzia Ice, il valore delle importazioni dal Bangladesh all’Italia ammontava a 274 milioni: quasi il 99% è rappresentato da prodotti tessili, articoli di abbigliamento e articoli di pelle. Un dato in crescita del 13% rispetto allo stesso bimestre del 2015.
Ma quale e’ il prezzo del successo dell’abbigliamento bengalese?  Il 24 aprile 2013, la fabbrica tessile Rana Plaza è crollata su stessa, uccidendo 1.134 operai che lavoravano per diversi marchi occidentali. Nel gennaio 2014, l’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia delle Nazioni Unite, ha istituito il Rana Plaza donors trust fund, un fondo per risarcire le vittime della strage. I versamenti potevano essere effettuati su base volontaria, ma si e’ voluto a gran voce che partecipassero i grandi brand della moda committenti del Rana Plaza, tra cui Benetton, H&M, Primark, Mango, Auchan e altri. Il problema resta il basso costo della manodopera a cui si affiancano condizioni per niente a norma in materia della sicurezza sul lavoro. Molte aziende note seguono il piano di  interventi di messa in sicurezza e si “riscontrano buoni progressi”. La presenza di tanti italiani attivi nel settore dell’abbigliamento non è difficile da spiegare: il Bangladesh è una delle più grandi fabbriche tessili del mondo, grazie soprattutto agli investimenti di aziende occidentali, a partire dai colossi americani ed europei dello sportswear e da quelli del fast fashion. Il tessile-moda occupa circa 3,6 milioni di persone in 5mila fabbriche e, sommando abbigliamento, accessori, calzature e biancheria per la casa, rappresenta la prima voce di export del Paese, con circa 26 miliardi di euro. Al secondo posto,a distanza abissale, ci sono i pesci e crostacei (meno di un miliardo di euro).
L’Italia è uno dei principali mercati di destinazione: secondo i dati di Sistema moda Italia (Smi), nel 2015 l’import maggiore è arrivato dalla Cina, come è facile immaginare (4,59 miliardi), ma dal secondo al sesto posto, con valori e quote sull’import totale molti simili, ci sono Francia (1,3 miliardi), Germania (1,24 miliardi), Turchia ( 1,23 miliardi), Spagna (1,1 miliardi) e Bangladesh (1,04 miliardi). A crescere di più rispetto al 2014 è stato proprio il flusso dal Paese asiatico: +24,2% contro il 5,6% della Cina. Dei venti Paesi Ue ed extra Ue analizzati da Smi, solo il Vietnam ha fatto meglio (+25,3%), ma partendo da valori molto più bassi: è al 18° posto e le importazioni valgono solo 224 milioni. 
Da una parte quindi c’è la naturale esigenza delle aziende che hanno delocalizzato in Bangladesh o intendono farlo di monitorare investimenti e partnership. Ma c’è anche un altro motivo per i numerosi viaggi di imprenditori italiani a Dacca: le condizioni dei lavoratori dell’industria tessile locale e la necessità di controllare che vengano rispettati standard quanto più possibile simili a quelli occidentali su sicurezza del lavoro e di ecosostenibilità. 
A tal fine è  nato  l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh, al quale hanno aderito 217 aziende della moda del mondo, che si sono impegnate a destinare 10 milioni di euro al miglioramento delle fabbriche. Tra le italiane, Artsana, Benetton, Coin/Ovs e Teddy, ma ci sono anche i colossi europei H&M, Inditex (Zara), Adidas, solo per fare alcuni nomi. La vera spinta verrà però dai consumatori finali, specie i più giovani. Recenti studi dimostrano che prima di comprare i Millennials (i nati tra il 1980 e il 2000) vogliono sapere tutto della sostenibilità sociale e ambientale di un marchio e che la stragrande maggioranza di loro (80% circa) è disposta a pagare di più per un prodotto etico e certificato.
Le aziende lo hanno capito e il terrore non deve fermare l’impegno e la presenza diretta degli imprenditori, in primis italiani, in Bangladesh. A farne le spese sarebbero i lavoratori, le cui condizioni restano lontanissime dai nostri standard,  secondo il documentario “The true cost” , prodotto   da Livia Firth e presentato al Festival del cinema di Cannes .

BRUNO RUSSO