Gli istituti a tutela dei soggetti incapaci

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Nel sentire sociale, spesso, accade che si confondano tra loro le figure dell’invalido e dell’incapace ritenendole erroneamente identiche. 

Si è, al contrario, in presenza di due situazioni ed entità giuridiche tra loro diverse e distinte, anche se in alcuni casi possono essere collegate, costituendo l’invalidità, a volte, uno dei presupposti per vedere accertata e dichiarata l’incapacità di un soggetto.

Infatti, nel nostro sistema giuridico, gli invalidi, di per sé, al di là delle specifiche limitazioni derivanti dalla patologia da cui sono colpiti, vengono ritenuti dalla legge totalmente in grado (capaci) di compiere qualsiasi atto ed assumere qualsiasi diritto alla pari di un qualsiasi soggetto “sano”. 

In altre parole, anche un individuo riconosciuto invalido al 100% con accompagnamento, può svolgere qualsiasi atto previsto dalla legge al pari di qualsiasi cittadino.

Esistono però, purtroppo, delle situazioni patologiche di gravità tale da rendere l’individuo che ne è affetto totalmente o parzialmente incapace di svolgere autonomamente le normali funzioni proprie della vita.

In questi casi, la legge prevede una serie di Istituti a tutela di tali soggetti consistenti nella interdizione, inabilitazione e nell’amministrazione di sostegno.

Prima di affrontare l’analisi di tali istituti è però necessario, per meglio comprenderli, previamente soffermarsi sull’analisi di due fondamentali concetti giuridici, spesso confusi tra loro: la capacità giuridica e la capacità di agire. 

L’essere umano, inteso come cittadino, è titolare, spesso inconsapevolmente, sin dalla nascita, di una serie di fondamentali diritti e doveri che gli permettono di agire ed interagire con gli altri cittadini. Tale complesso di diritti e doveri viene definito “la capacità giuridica” di un soggetto.

Essa, in forza dell’art. 1 del codice civile, viene automaticamente acquisita da ogni soggetto sin dal momento della nascita.

Per nascita, nel nostro ordinamento, viene considerato il momento in cui il feto vivo si distacca dal corpo della madre.

Pertanto, il “feto”, in quanto tale, non viene considerato un soggetto giuridico in senso proprio e, proprio per questo motivo, le norme che, in determinate situazioni, lo tutelano in via preventiva hanno natura eccezionale. Inoltre, la piena realizzazione di tali diritti è sempre subordinate alla realizzazione dell’evento della sua successiva nascita.

Quindi, sin dal momento della nascita e per il solo fatto di essa, ad ogni soggetto sono riconosciuti una serie di status (come ad esempio quello di cittadino) da cui derivano una serie di diritti ed obblighi.

Tra i primi, rientrano i c.d. diritti della personalità, ovvero una serie di fondamentali diritti detti assoluti o inalienabili (come ad esempio il diritto alla vita o al nome).

La capacità giuridica viene meno esclusivamente con la morte del suo titolare. Pertanto, non è possibile che essa sia sottratta in qualsiasi altro modo (per esempio per “motivi politici”).

Per espressa previsione legislativa (Art. 1 della Legge n. 578 del 1993) la morte fisica viene identificata con il momento della irreversibile cessazione di tutte le funzioni dell’encefalo, a prescindere dal perdurare della funzione circolatoria e respiratoria, che potrebbe essere indotta dalle tecniche di rianimazione.

La capacità giuridica, che abbiamo appena analizzato, si distingue dalla capacità di agire che consiste, invece, nella capacità legale della persona di disporre dei propri diritti ed assumere i propri doveri.

In altre parole, la capacità di un soggetto di compiere gli atti giuridici.

Essa si distingue in capacità sostanziale, ovvero la capacità di porre in essere i propri diritti ed obbligarsi ed in capacità processuale, ovvero l’idoneità del soggetto di esercitare le azioni giudiziarie e ad essere convenuto in giudizio.

Essa si acquista, per il nostro codice civile, al momento del raggiungimento della maggiore età.

Fino al raggiungimento di tale età, il minore è rappresentato dai genitori che amministrano i suoi beni e rispondono degli atti illeciti da questi compiuti nei confronti di terzi.

Esistono però una serie di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, previsti dalla legge, per il compimento dei quali i genitori devono comunque munirsi dell’autorizzazione del giudice tutelare (ad. es. cessione di beni immobili).

Eccezionalmente, al raggiungimento del sedicesimo anno di età, il minore, ricorrendovi gravi ragioni, può contrarre matrimonio.

In questi casi, deve, però, essere autorizzato dal Tribunale, previo accertamento della sua maturità.

Con il matrimonio, il minore (emancipato) può compiere tutti gli atti inerenti l’ordinaria amministrazione.

Al contrario, salvo che non sia stato autorizzato dal Tribunale a svolgere una attività d’impresa, dovrà essere previamente autorizzato dal Giudice Tutelare, per compiere gli atti di straordinaria amministrazione.

Inoltre, in casi particolari, il minore, raggiunti i 14 anni di età, può svolgere una attività lavorativa, potendo così esercitare i diritti ed assumere i doveri connessi allo stipulato contratto di lavoro.

Come la capacità giuridica, la capacità di agire si perde con la morte del suo titolare.

Al contrario della capacità giuridica, che non può essere in alcun modo sottratta o compressa, la capacità di agire può essere, invece, limitata o revocata in presenza di determinati presupposti.

Ciò accade, come anticipato, ogni qual volta si ravvisi la necessità di tutelare gli interessi dell’incapace e dei terzi, attraverso la nomina di un soggetto che lo sostituisca e/o coadiuvi nel compimento di tutti o alcuni atti.

La capacità di agire può essere persa in due specifiche ipotesi, determinando così la c.d. incapacità di agire.

Con l’interdizione giudiziale, dichiarata con una sentenza che accerti e declari lo stato di infermità mentale del soggetto interessato oppure nei casi previsti dall’art. 32 del codice penale, quale sanzione accessoria ad una condanna all’ergastolo o per un delitto non colposo punito con pena non inferiore a 5 anni. (interdizione legale)

Nel caso dell’interdizione giudiziale, il Tribunale accerta l’inidoneità totale del soggetto a provvedere ai propri interessi e, conseguentemente, questi è equiparato alla condizione del minore d’età.

Contestualmente alla declaratoria di interdizione, il Tribunale nomina un tutore che subentra in tutto e per tutto nei diritti e doveri di cui l’interdetto è destinatario, curando la persona e gestendo il suo patrimonio.

Di conseguenza, l’interdetto non potrà compiere alcun atto, né di straordinaria, né di ordinaria amministrazione. Gli è permesso, sempre sotto la supervisione del tutore, solo il compimento di atti personalissimi, quali la scelta dei trattamenti sanitari, o le scelte sentimentali.

Qualsiasi atto compiuto in proprio dall’interdetto, dopo l’emissione della sentenza che lo ha riconosciuto tale, sarà pertanto annullabile tramite ricorso al giudice tutelare.

Esistono, poi dei casi nei quali la capacità di agire può essere solo limitata.

Il primo caso è costituito dalla c.d. inabilitazione, che  è disposta con sentenza del Tribunale, in tutti quei casi in cui venga accertata un’infermità (o altra causa indicata nell’art. 415 c.c.) che riduce la capacità del soggetto di provvedere ai propri interessi senza però eliminarla del tutto.

Esempi tipici sono le situazioni connesse all’abuso di sostanze alcoliche o droghe o all’incapacità di gestione patrimoniale.

 In questi casi, l’inabilitato è giuridicamente equiparato al minore emancipato e potrà quindi compiere gli atti di ordinaria amministrazione.

Al contrario, potrà compiere gli atti di straordinaria amministrazione esclusivamente con l’avallo (ed in certi casi anche con l’autorizzazione del Giudice Tutelare) del curatore nominato dal Tribunale. In mancanza, tali atti risultano annullabili.

Il concetto di atto straordinario deve essere inteso in senso ampio ricomprendendo non solo gli atti di natura prettamente economico patrimoniale ma anche gli atti connessi agli obblighi pubblici e familiari (come ad esempio procedere giudizialmente nei confronti di un altro soggetto)

Infine, casi meno gravi, il Tribunale può nominare un amministratore di sostegno che assista il soggetto per i soli casi in cui l’interessato “per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi” (art. 404 c.c.).

Pertanto, questi, in linea di principio può regolarmente compiere autonomamente gli atti di ordinaria amministrazione.

L’amministratore di sostegno, quindi, si differenzia dal tutore e del curatore, in quanto non può sostituirsi all’amministrato nelle decisioni di natura personale, potendo intervenire solo su questioni di carattere patrimoniale.

Inoltre, tale istituto non comporta automaticamente una riduzione in via generale della capacità di agire del soggetto in quanto, nel momento in cui viene sancita dal Tribunale, questi stabilisce specificamente anche quali atti l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario e quelli in cui deve semplicemente assisterlo.

In linea molto generale, in tutti i casi sopra indicati, la richiesta va presentata con ricorso al Tribunale di residenza o domicilio dell’interessato.

Il ricorso può essere presentato direttamente dall’interessato, dal coniuge (o convivente) dello stesso, dai suoi parenti entro il quarto grado e dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o curatore, se già nominati, e dal pubblico ministero.

Nel caso in cui l’interessato sia ancora un minore sottoposto alla potestà genitoriale, la richiesta potrà essere presentata solo dai genitori e dal pubblico ministero.

Da questa breve analisi risulta evidente che i tre istituti sopra delineati hanno tutti il medesimo fine di tutelare il loro destinatario differenziandosi tra loro per il diverso grado di protezione che il destinatario necessita e della conseguente intensità delle misure adottate. 

Nella pratica, sempre in linea molto generale, l’interdizione, data la sua pressante portata, ha natura residuale mentre l’istituto dell’amministrazione di sostegno, per il suo minore impatto sulla vita del destinatario, ha portata, in linea di massima, generale e prioritaria.

In altre parole, in generale, si tende, ove possibile, sempre a percorrere, primariamente, la via dell’amministrazione di sostegno ed, eventualmente, solo successivamente, in presenza dei necessari presupposti, l’inabilitazione e, per ultima, l’interdizione.

Avv. Raffaele Anatriello