Petrolio e politica. Amaro Lucano per la Guidi

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Uno tira l’altro. E non si tratta di cioccolatini, ma di un altro scandalo. Questa, almeno, è la sensazione diffusa che ne ricava l’italiano medio, costretto purtroppo ancora a barcamenarsi tra le difficoltà economiche e, dunque, sempre meno propenso a distinguere il grano dal loglio e più incline a fare, invece, di tutta l’erba un fascio.

Insomma, il “beau geste” delle dimissioni da ministro dello Sviluppo economico – che pure in situazioni più o meno analoghe altri pure avrebbero dovuto dare – passa oggettivamente in secondo piano alla lettura della conversazione di Federica Guidi con il suo compagno, Gianluca Gemelli. Una telefonata intercettata nell’ambito dell’inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere, che ha portato a sei arresti e al blocco della produzione dell’Eni in Val D’Agro. Insomma la Guidi non è iscritta agli atti, solo Gemelli risulta indagato. 

La vicenda – è appena il caso di notare – alla vigilia di un referendum viziato da una odiosa demagogia pseudo-ambientalista, rischia di ingigantire ombre e sospetti e, dunque, di inquinare – questo sì, in maniera grave – il corretto ed equilibrato dibattito sui temi veri dello sviluppo che pure non è più procrastinabile in questo Paese. Di più. In qualche modo finisce per distorcere anche il dibattito sul ruolo che le associazioni datoriali, Confindustria in primis, su questo fronte devono svolgere. Anche perché – analizzando le coincidenze – l’effetto farfalla che da tali vicende consegue è francamente inevitabile. Insomma, nella stanza dei bottoni di Via Veneto Federica Guidi è arrivata dalla carica di presidente appassionato e intransigente dei Giovani Imprenditori dell’associazione di Viale dell’Astronomia, prima ancora che dall’esperienza imprenditoriale di famiglia. Mentre il compagno Gianluca Gemelli è tuttora commissario di Confindustria Siracusa. 

L’inchiesta, peraltro, per una strana coincidenza temporale, è balzata sui media proprio nel giorno della designazione del salernitano Vincenzo Boccia alla successione di Giorgio Squinzi alla guida della casa madre degli industriali. Un’investitura, va detto, che – contrariamente al rituale confindustriale – è avvenuta in un clima di spaccatura come ha detto il past president Luca Cordero di Montezemolo, sponsor dell’altro candidato, Alberto Vacchi. Boccia, infatti, è stato designato a stretta maggioranza: cento voti a favore, 91 contrari e una scheda bianca. In ogni caso, sufficiente e perfettamente in regola per essere eletto (ma, forse, sarebbe più appropriato parlare di ratifica) dall’assemblea il 25 maggio prossimo.  

Superfluo aggiungere che l’elezione di Boccia, 52 anni, amministratore di uno stabilimento tipografico tra i più importanti d’Europa, è importante per almeno due motivi. Intanto, è la prima volta che il nuovo leader della Confindustria è espressione formale e sostanziale di quella piccola industria unanimemente ritenuta la colonna vertebrale dell’economia italiana. Secondo, è campano e dunque, rappresentante di un Sud che, in assenza di politiche mirate, rischia davvero la deriva rispetto al resto del Paese. Insomma, c’è più di un motivo per rallegrarsi.

Per la cronaca, tra i sostenitori di Boccia ci sono due ex-presidenti dell’associazione degli industriali, Emma Marcegaglia e Luigi Abete, ma non il napoletano Antonio D’Amato. E tra i supporter ci sono non solo le associazioni imprenditoriali del Mezzogiorno (non Napoli e Caserta, però) ma anche il Piemonte e Bolzano. Dunque, anche i rappresentanti imprenditoriali di quella parte del Paese che, secondo il rapporto Nord Est 2016, è finalmente ripartita, trainata dai consumi (+1,3%), dagli investimenti (+1%) e soprattutto dall’export (+5,8%). E ciò a dispetto dell’embargo della Russia che al Made in Italy è costato – secondo la Cgia – 3,6 mld di euro di cui un terzo (1,18 mld) alla sola Lombardia. 

Più in generale, invece, ha fatto discutere e non poco un rapporto dell’Istituto di previdenza da cui emerge che in 13 anni, dal 2003 al 2015, le pensioni di vecchiaia liquidate ogni anno si sono quasi dimezzate, passando dalle 494 mila circa del 2003 alle 286 mila dell’anno scorso, in conseguenza delle ripetute riforme delle pensioni. L’età media del pensionamento è cresciuta di tre anni esatti: da 59,7 anni nel 2003 a 62,7 nel 2015. Nei primi due mesi del 2016 l’età media di pensionamento di vecchiaia è stata di 65,4 anni mentre quella per le anzianità di 60,6 anni. Il dato, tuttavia, che più colpisce è questo: il 63,4 delle pensioni sotto 750 euro. E al Sud si registra il doppio di invalidità del Nord.