Il Qatar e l’Iran: Prove generali di guerra tra sciiti e sunniti

L’Arabia Saudita, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, piccolo stato a maggioranza sciita ma retto dai sunniti, la Libia orientale di Haftar e del “consiglio” della Cirenaica, le Maldive, lo Yemen e le Isole Mauritius hanno, tutti, rotto ogni rapporto politico, diplomatico e economico con l’Emirato del Qatar, retto dallo sceicco Abdullah bin Nasser bin Khalifa al Thani.

Non è la prima volta che Riyadh si ingerisce pesantemente negli affari interni dell’Emirato: furono infatti le fortissime pressioni saudite a far dimettere, il 26 giugno del 2013, l’allora primo ministro, Hamad bin Yassim Al Thani.
Le linee aeree delle suddette nazioni sunnite hanno poi annunciato che non opereranno più voli di linea verso Doha, la capitale del Qatar, ai porti dell’Emirato non attraccano più navi dei paesi sopra citati ma, soprattutto, i rifornimenti alimentari del piccolo Stato, che vengono spediti via terra per il 50% dall’Arabia Saudita, non vengono più consegnati a Doha.
Sette-ottocento TIR giornalieri che non riforniscono di cibo il Qatar dalla sua unica frontiera di terra e che rimangono bloccati in Arabia Saudita.
L’Emirato non può quindi reggere a lungo, e nemmeno l’Iran, che è prudentissimo e non vuole creare il casus belli, proprio ora, non ha finora manifestato alcun interesse a sostituire i sauditi nel mantenimento alimentare e nelle comunicazioni commerciali qatarine.
Se Teheran lo facesse, darebbe automaticamente ragione ai sauditi e agli altri Paesi che seguono il blocco del Qatar ordinato da Riyadh.
Doha, lo ricordiamo, non è stata, finora, intaccata economicamente dalle tante tensioni mediorientali, ospita la rete satellitare Al Jazeera, legata alla Fratellanza Musulmana come, del resto, lo sceicco Al Qaradawi che risiede dell’Emirato dopo essere stato cacciato dall’Egitto.
Il Qatar è il maggiore esportatore di gas naturale al mondo, uno dei primi per il petrolio, fa gola a molti e, soprattutto, potrebbe diventare il punto di riferimento per alcuni produttori sunniti minori e per una nuova trattativa, anche di tipo economico ed estrattivo, tra sunniti e sciiti.
Non è poi inutile qui ricordare che Al Jazeera è nata sulle ceneri della sezione araba della BBC.
Al Thani ha infatti studiato in Gran Bretagna, come del resto tutta la famiglia reale giordana; e non è nemmeno un caso che il regno hashemita di Amman non si sia unito, almeno per ora, alla linea dura dei sauditi e dei loro alleati.
I giordani sanno che avrebbero solo da perdere in un bellum omnium contra omnes mediorientale e, nella divisione del lavoro sottostante alla nuova alleanza USA-sauditi, Amman si concentra sull’asse Iraq-Siria, mentre il blocco sunnita centrale si sta muovendo rapidamente contro l’Iran.
La borsa titoli dell’Emirato è poi caduta, in una sola ora di scambi, del 7,6% e la Banca di emissione del Qatar è calata, nelle quotazioni, del 5,7%.
L’emirato ha inoltre acceso prestiti, all’interno e dagli investitori esteri, per un totale di 200 miliardi di Usd, al fine di finanziare la nuova rete di infrastrutture che dovranno essere pronte entro il 2022, anno della Coppa del Mondo di calcio a Doha.
Non vi sarà nemmeno la coppa di calcio del Consiglio del Golfo, prevista per quest’anno.
Le banche egiziane non trattano più con quelle del Qatar, la divisa dell’Emirato non viene più accettata e cambiata nei Paesi sunniti, gli imprenditori egiziani stanno rapidamente disinvestendo a Doha.
Come sempre, la guerra economica inizia prima di quella con le armi.
E’, con ogni evidenza, l’inizio di una vera e propria guerra che colpirà, indirettamente, l’Emirato del Qatar ma, direttamente, la Repubblica Islamica dell’Iran.
Dopo la visita di Donald Trump in Arabia Saudita il 20 maggio scorso, la prima visita all’estero del neoeletto presidente Usa e l’inizio di una alleanza storica, ancora più solida di quella che ha già caratterizzato le relazioni bilaterali saudite e americane fin dai tempi della prima guerra del Golfo, questo, contro il Qatar, è il primo atto della “NATO sunnita” proposta proprio da Trump.
Il fondamento politico e propagandistico è consunto e in gran parte controfattuale: Teheran “favorisce il terrorismo”.
Il bue che dice cornuto all’asino. I principali stati che sostengono, almeno dal 1996, il jihad “della spada” sono, appunto, l’Arabia Saudita e il Pakistan.
Riyadh ha speso, secondo alcune fonti americane, almeno 100 miliardi di Usd per diffondere il wahabismo, la tradizione sunnita che caratterizza il regno saudita.
Si pensi che l’URSS ha speso, in tutti i 70 anni della sua durata, solo 7 miliardi di Usd per diffondere il comunismo sovietico all’estero.
2500 sauditi dovrebbero essere ancora nei ranghi del Daesh-Isis,
Gli iraniani che si sono uniti al Daesh-Isis sono, secondo le fonti di Teheran, solo 23, e si tratta unicamente di curdi sunniti.
Lo sanno tutti, come emerge chiaramente dai Wikileaks delle mail private di Hillary Clinton, che i sauditi sono attenti e generosi finanziatori del califfato sirio-iracheno, ed è strano che proprio oggi si colpevolizzi Teheran invece di Riyadh.
Piuttosto, è molto più probabile che l’Arabia Saudita, che ha un ormai noto depauperamento dei suoi pozzi di petrolio più grandi e “antichi”, voglia regolare subito i conti con il concorrente iraniano.
Oggi Teheran esporta, dai 10.000 barili/giorno di prima dell’accordo P5+1 ben 3,37 milioni di barili/giorno, ed è un dato del marzo 2017.
L’occasione per far maturare lo scontro tra Riyadh e Doha è stata una nota, redatta a maggio di quest’anno dall’ emiro Al Thani in cui si lodavano Israele e Iran; una nota che pietosamente l’agenzia giornalistica del Qatar aveva definito, come oggi si usa, una fake news.
Ma successivamente l’emiro del Qatar si è complimentato, in una telefonata ufficiale, con Hassan Rouhani, il rieletto presidente iraniano.
Davvero troppo, per i sauditi, ma a Riyadh dovrebbero sapere che Doha e Teheran gestiscono da tempo, e paritariamente, il più grande giacimento di gas naturale al mondo, il South Pars-North Dome, anche se i media iraniani polemizzano con Doha per l’eccessiva estrazione gaziera, che i dirigenti dei Pasdaran iraniani collaborano da tempo con l’intelligence dell’Emirato, che Doha non ha polemizzato per le ingerenze iraniane durante la rivolta sciita nel Bahrein del gennaio 2011, che infine i due stati hanno normali relazioni diplomatiche fin dall’accordo di demarcazione con lo Shah Pahlevi del 1969.
Ovvio che, peraltro, tutti i Paesi del Golfo, e anche qui dobbiamo includere il Qatar, temano fortemente il riarmo nucleare-convenzionale iraniano; ed infatti le potenze sunnite del Golfo, compresa Doha, hanno già investito 122 miliardi di Usd, in totale, per il riarmo dell’area.
Quindi, accorgersi solo oggi del fatto che l’Emirato era una voce fuori dal coro dell’egemonia sunnita-wahabita di Riyadh è davvero pretestuoso.
Anche gli Usa dovrebbero stare, poi, più attenti a muoversi contro il Qatar.
L’Emirato degli Al Thani è la sede avanzata dell’United States Central Command da cui dipendono tutte le operazioni militari statunitensi, e parte di quelle di intelligence, per l’Afghanistan e per tutto il grande Medio Oriente.
Il comando dell’aviazione Usa che opera contro il Daesh-Isis si trova appena fuori dalla base aerea dell’emirato ad Al-Udeid.
Gli americani sanno bene che il Qatar è stato un finanziatore di alcuni gruppi islamisti e, soprattutto, della Fratellanza Musulmana, che sta al jihad attuale come i partiti comunisti dell’Est stavano alle Brigate Rosse o alla Rote Armee Fraktion.
Ma l’Emirato è stato anche un utilissimo canale per le trattative tra americani e i taliban o gli altri gruppi islamisti, come accadde per la liberazione, da parte degli “studenti” afghani, del sergente Bergdahl, che era stato catturato dai taliban nel 2009 e successivamente rilasciato nel 2014.
Invece di mediare tra sunniti e sciiti, soprattutto dopo l’accordo sul nucleare di Teheran del luglio 2014, gli Usa e, temiamo, anche qualche alleato europeo tra i più servili, addirittura creano una tensione, del tutto inutile, con il Qatar solo per seguire i loro maestri sauditi.
Invece, gli Usa e i sauditi, nella riunione del 20 maggio scorso, hanno redatto un documento che dichiara l’Iran primo sponsor del terrorismo, e il Qatar si è rifiutato di firmarlo, decretando così la sua fine.
E creando, se non ci sarà niente di nuovo tra qualche giorno, il casus belli definitivo contro l’Iran.
Un attacco a Teheran potrebbe arrivare dagli stessi sauditi, sostenuti nelle retrovie dalla Giordania, o, con uno strike nucleare, dal lontano ma nuclearizzato Pakistan; anche se non si può escludere un blocco navale saudita-americano del Golfo Persico, per chiudere, come si sta facendo con il Qatar, le comunicazioni e, soprattutto, le esportazioni petrolifere.
Detto tra parentesi, un rialzo del prezzo del petrolio farebbe oggi gli interessi sia dei sauditi che degli americani, ma favorirebbe anche Teheran, che però potrebbe rivendere i suoi barili, come sta già facendo, alla Cina e farsi pagare in yuan, con la stessa logica commerciale degli attuali rapporti tra Mosca e Pechino.
D’altra parte, è da molto tempo che Riyadh comanda e Washington risponde.
La lobby saudita nei palazzi del potere Usa è molto più forte di quella, molto meno potente di quanto non si creda, che fa capo ad Israele.
Da Henry Ford I, traduttore del Mein Kampf hitleriano, alle banche d’affari protestanti e puritane, che non si sono mai peritate a mettere i bastoni nelle ruote della finanza di origine ebraica, nelle élites nordamericane serpeggia da sempre un raramente confessato antisemitismo.
Colin Powell, Segretario di Stato al tempo di George W. Bush, era di casa dall’ambasciatore saudita a Washington; e certamente le due guerre del Golfo sono state più adatte ai fini strategici di Riyadh che non a quelli statunitensi.
Non dimentichiamo, poi, che il ridisegno strategico del Golfo, dopo la caduta di Saddam Husseyn, ha aiutato davvero un solo Paese: l’Iran.
Gli Usa hanno eliminato quindi un feroce nemico di Teheran, con il quale gli sciiti erano in guerra da dieci anni, e hanno compresso il jihad sunnita dei taliban, altro pericolo mortale per la repubblica sciita iraniana.
Da ora, quindi, per Washington, il terrorismo islamico (mai che ci si riferisca ad esso con il suo vero nome, jihad, che è una tecnica bellica complessa e ben diversa dalla filosofia occidentale della guerra) sarà quello di Hamas, che è una branca della Fratellanza Musulmana ed è comunque finanziato dall’Iran, ma anche dalle potenze sunnite, e del libanese Hezb’ollah, che riceve sostegno da Teheran, certo, ma che è finanziato anche da altri Paesi islamici e sunniti.
Quindi, se si tratta di “sostenere il terrorismo”, gli Usa dovrebbero chiederne conto anche e soprattutto ai loro alleati sunniti, e a maggior ragione di quanto accade oggi con l’Iran e il Qatar.
E poi, che fine farebbero i comandi integrati Usa nell’Emirato?
Washington pensa forse di trasferirli o, meglio, di porli in ostaggio dei sauditi?
Inoltre, la Turchia ha un trattato di alleanza militare con il Qatar, e Ankara ha promesso un sostegno all’Emirato se questo fosse attaccato.
E la Quinta Flotta Usa staziona in Bahrein, altro possibile ricatto agli Usa in uno scontro sciiti-sunniti.
Certo, un incidente può scoppiare, data la situazione, in ogni momento, soprattutto tra la flotta Usa e le piccole imbarcazioni dei pasdaran, le aree marittime laggiù sono molto strette, poi l’Iran controlla con estrema attenzione l’area, la sua flotta di numerosissimi droni legge e scruta il terreno e i movimenti delle truppe.
Si vuole forse, quindi, che la Turchia, seconda forza armata della NATO, dichiari guerra all’Arabia Saudita, con conseguenze oggi inimmaginabili per l’Alleanza e l’economia europea?
E’ davvero un incubo pensare a quello che accadrebbe se arrivasse una nuova crisi petrolifera in Europa mentre c’è ancora, e non se ne andrà via tanto presto, la crisi finanziaria che è stata originata negli Usa nel 2008.
Inoltre, oggi in America del Nord il peso dell’indebitamento privato e pubblico è a livelli record, persino maggiori di quelli che causarono, ce lo dice il Financial Times, la grande crisi del 2008.
Che era iniziata, in verità, nel 2006, con il crollo, causato dalla JP Morgan, di Lehman Brothers. Puritani contro Ebrei.
I cittadini americani hanno debiti con le carte di credito per un trilione di Usd, e di un altro trilione per i prestiti agli studenti e anche per l’acquisto di case e automobili.
Le aziende Usa hanno debiti, calcolati dal 2010 ad oggi, per 7,8 trilioni di dollari e il debito aggregato, ovvero la somma di quello pubblico con quello privato, è pari addirittura al 350% del PIL.
Così come gli Usa uscirono davvero dalla crisi del 1929 solo con le spese belliche della II Guerra Mondiale, e non certo con le piccole iniziative keynesiane quali la Tennessee Valley Authority, oggi potrebbero uscire dalla spirale del debito, e riconquistare una preminenza strategica globale, solo dando inizio ad una nuova grande guerra, che avrà per centro il Medio Oriente.
Un’area che serve per contenere Russia e Cina, regolare e controllare la loro economia, regionalizzare l’Europa e il suo Euro, che dà molto fastidio agli Usa, controllare il punto in cui arrivano tutti i mari regionali della Terra, a parte il Sud-Est asiatico.
Ma oggi la distribuzione dei potenziali non è più quella degli anni ’30 e ’40, e il calcolo strategico che vi ho descritto potrebbe non avere quella soluzione che Washington desidera.

Giancarlo Elia Valori