Spaccaossa di Vincenzo Pirrotta: dalla cronaca al cinema, una storia di degrado e cinismo

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di Erika Basile

Il tintinnìo diegetico di ex voto appesi a una parete, poi uno stacco e la camera si concentra su un uomo che riempie con dischi di ghisa un trolley. Il rumore è sordo. Vediamo un’impalcatura e un braccio tenuto in tensione. Nella penombra di un magazzino dismesso, trasformato in altare sacrificale, si consuma il macabro rito. Una busta di ghiaccio come unico anestetico. Impossibile non abbassare lo sguardo e non sentirsi lacerati dall’urlo di dolore che squarcia il silenzio. L’orrore del supplizio si consuma nella più spietata indifferenza. Spaccaossa è un film che graffia, che entra a gamba tesa nella coscienza di tutti noi. Opera prima di Vincenzo Pirrotta, attore teatrale e cinematografico, è l’unico lungometraggio di finzione presentato alla Giornata degli Autori nella sezione Notti Veneziane della 79ª Mostra del Cinema di Venezia. Prodotto da Attilio De Razza e Nicola Picone per Tramp Limited con Rai Cinema, è interamente recitato in dialetto siciliano, con sottotitoli, e si avvale di un cast quasi completamente palermitano: a Vincenzo Pirrotta si affiancano Ninni Bruschetta, Luigi Lo Cascio, Giovanni Calcagno, Selene Caramazza, Aurora Quattrocchi, Simona Malato e Rossella Leone. La narrazione ha come sfondo i rioni di Danisinni, Falsomiele e Borgonovo, ad esclusione di un set allestito a Torretta. Daniele Ciprì ne firma la fotografia, restituendoci una città cupa e malinconica. “Ho scelto di raccontare questa storia – afferma il regista – perché credo che sia una necessità. Ancora una volta, la città di Palermo deve scrollarsi un’onta, espellere un tumore”. La storia di degrado e cinismo narrata da Pirrotta si ispira al caso emerso con le indagini che hanno portato, a partire dal mese di agosto del 2018, alle operazioni “Tantalo” e “Tantalo bis”. L’inchiesta ha messo in luce un sistema organizzato di truffe assicurative. Le finte vittime di inesistenti incidenti stradali erano reclutate tra persone disperate, in grave difficoltà economica, tra tossicodipendenti ed emarginati che accettavano di farsi letteralmente spaccare le ossa, in cambio di poche centinaia di euro. Il film accende i riflettori su una doppia miseria: quella materiale delle vittime e quella spirituale dei carnefici. Il regista sottolinea l’intento di voler andare oltre il fatto di cronaca, soffermandosi sulle storie personali di un’umanità disperata e sempre più insensibile verso la sofferenza altrui. In una plumbea, triste e desolata Palermo, si rappresenta, come in un teatro greco, la tragedia degli ultimi, degli invisibili, di coloro che sono disposti a tutto pur di poter offrire uno scampolo di gioia alle persone che amano. Storie di solitudine e povertà estrema in cui la macchina da presa si insinua per svelare il tormento che le abita.
A loro si contrappongono personaggi senza pietà, di una crudeltà indicibile. Uomini che esercitano un potere assoluto sui corpi di disgraziati, che non hanno altro da offrire se non le proprie ossa come merce di scambio.
Il regista pone un interrogativo sulla condizione umana, con uno sguardo sofferto che tuttavia non esprime giudizi. Durante tutta la durata del film, in cui avvertiamo costantemente l’immanenza della morte, sembra riecheggiare una domanda: “Fino a che punto siamo disposti ad arrivare per ottenere qualcosa a cui teniamo?”. Un’umanità pasoliniana senza speranza, degradata, vive ai margini di una società che non si cura di lei. Personaggio emblematico è Luisa (Selene Caramazza), una ragazza tossicodipendente, scappata da una comunità, orfana e rifiutata anche dal fratello. Vive il suo calvario ogni giorno fino a quando si illude di aver trovato in Vincenzo (Vincenzo Pirrotta) il suo angolo di cielo, la tenerezza e l’accudimento che non ha mai ricevuto. Il risveglio dal sogno è ancora più doloroso. “Semu nuddu ammiscatu cu nenti”, le ricorda Vincenzo, facendola ripiombare nel baratro da cui pensava di essersi salvata. Ma lei continua a fidarsi, immaginando un futuro diverso: “Hanno sempre deciso gli altri per me, gli assistenti sociali, gli psicologi, la vita. Ora basta. Ora decido io. […] La vita mi ha rotto già le ossa senza darmi niente in cambio. Ora mi faccio pagare”.
Vincenzo è un emissario dell’organizzazione criminale, un burattino senza carattere, mosso dai capi e succube della madre, donna egoista e spietata, capace di recitare il rosario mentre incoraggia il figlio a cercare derelitti da “rompere”. Una madre possessiva che mal tollera la presenza di Luisa e induce Vincenzo a tradirla nel modo più crudele. Come una lama, l’inquadratura taglia il racconto, mostrando l’antro del dolore, più e più volte. In un fermo immagine sgranato, inquietante. Dal male non ci si può salvare. Sembra dirci questo il finale. Ma forse un modo per cambiare le cose esiste: non voltarsi dall’altra parte, facendo finta di non vedere la miseria che è intorno a noi e può indurre a compiere gesti estremi. Dare voce agli sguardi muti e disperati di tutti coloro che non hanno la forza per ribellarsi, come Maria (Simona Malato), la moglie di Ciccio (Ninni Bruschetta), obbligata ad assistere gli “spaccati”, oppure Patrizia (Rossella Leone), che subisce senza poter reagire lo strazio della perdita. La colonna sonora si affida alle musiche originali di Alessio Bondì, Fabio Rizzo e Aki Spadaro, che punteggiano in modo suggestivo l’evolversi della storia. In una delle scene più coinvolgenti, la voce straordinaria di Giuni Russo intona O vos Omnes: ”O voi che passate per la via, ditemi se quello che vedete non è dolore”. Verso la fine, la camera indugia nuovamente sugli ex voto, questa volta l’immagine successiva è quella di un funerale, a voler ricordare una ferita che non guarisce e un inutile sacrificio. Dopo più di cento minuti vissuti nelle viscere della città, gli ultimi fotogrammi ci regalano una meravigliosa panoramica sul mare che bagna Palermo, planiamo fino a scorgere le navi che sonnecchiano nel porto, le case, la “luminosità vaporosa che fluttua intorno alle coste”, la baia sovrastata dal Monte Pellegrino, definito da Goethe “il promontorio più bello del mondo”.